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Writer's pictureKoinè Journal

7 OTTOBRE: un anno dopo il massacro


di Lorenzo Ruffi.


All’alba del 7 ottobre di un anno fa Hamas lanciava l’operazione Alluvione Al-Aqsa, sorprendendo il sistema di sicurezza e le difese israeliane attraverso un attacco coordinato con lancio di missili e droni, unito a operazioni di terra che hanno portato i miliziani del movimento islamista palestinese a penetrare entro i confini dello Stato Ebraico, commettendo un massacro indiscriminato di civili e militari nei kibbutz al di là della Striscia di Gaza, trucidando in poche ore milleduecento persone. L’imprevedibilità di tale operazione, unita alla sua tragica teatralità, con i combattenti di Hamas che hanno superato l’imponente barriera che separa Gaza da Israele attraverso deltaplani motorizzati, hanno rappresentato un’umiliazione senza precedenti per Tel-Aviv e il suo capillare sistema d’intelligence. Ripresosi dall’iniziale shock, Benjamin Netanyahu ha dato il via a una massiccia invasione militare della Striscia, con l’obiettivo dichiarato di estirpare, una volta per tutte, la minaccia terroristica di Hamas.

 

La guerra a Gaza, oltre a una pressoché totale distruzione materiale dell’enclave palestinese e alla morte di oltre quarantunomila civili, di cui la maggior parte donne e bambini, ha completamente ridisegnato l’architettura politica del Medio Oriente e non solo. Il coinvolgimento di numerosi attori terzi, le proteste globali contro quella che da molti è ormai descritto come un vero e proprio genocidio palestinese, nonché l’impatto economico di tale conflitto su scala mondiale lasciano intendere che quella in atto a Gaza non è una semplice crisi locale figlia della perenne instabilità di quella parte del mondo, ma un evento in grado di alterare in maniera decisiva gli equilibri e i rapporti di forza dei principali attori su scala globale. Dopo un anno di guerra, molti sono gli interrogativi che è necessario sollevare. Cosa ne sarà di Gaza dopo la fine delle ostilità? Il Medio Oriente è davvero sull’orlo di una guerra regionale? Le elezioni americane saranno davvero un punto di svolta? E quale futuro attende i due attori principali, Israele e Hamas, dopo questo conflitto? A queste e ad altre domande è necessario provare a fornire una risposta, anche se parziale e imperfetta, per capire cosa è stato il Sette ottobre, e quale sarà il suo retaggio.


Il futuro di Gaza appeso a un filo

Uno dei principali nodi che il governo israeliano dovrà presto affrontare sarà come gestire l’amministrazione di Gaza. Nonostante le numerose pressioni internazionali, Netanyahu non ha ancora presentato nessun programma politico per il post-conflitto, limitandosi a dichiarare che la Striscia non sarà più governata da Hamas. La storia insegna che amministrare la Striscia, per Tel-Aviv, non è mai stato facile: dopo aver occupato per quarant’anni l’enclave costiera, Ariel Sharon decise di ritirare nel 2005 tutti i soldati per il costo eccessivo della sicurezza, minacciata dal crescere degli insediamenti coloniali, poi eterodiretti verso la Cisgiordania, e dagli attacchi dei miliziani palestinesi. Il ritiro, seguito dalle elezioni legislative palestinesi che consegnarono la Striscia nelle mani di Hamas, peggiorò in realtà la situazione securitaria di Israele. Il continuo lancio di razzi da parte del gruppo islamista portò il governo di Ehud Olmert a dichiarare l’avvio di una prima offensiva a Gaza, con l’obiettivo di annientare la potenza di fuoco di Hamas: l’operazione “Piombo Fuso” nell’inverno 2009 si rivelò limitata negli obiettivi, costringendo i miliziani palestinesi a limitare le proprie attività negli anni a venire, ma non intaccò la struttura politico-militare del movimento, che rimase pienamente operativa.


A seguito del massacro del sette ottobre, il governo Netanyahu si è trovato costretto a lanciare una nuova operazione di terra a Gaza, con l’obiettivo di occupare a tempo indefinito la Striscia per permettere alle IDF di decapitare la leadership militare di Hamas; tuttavia, la campagna militare ha confermato le complessità insite nell’occupazione di questo fazzoletto di terra. L’estrema densità abitativa della Striscia, unita all’ambiente prevalentemente urbano dei combattimenti ha obbligato le forze israeliane, con una soverchiante superiorità in numero, armamenti e potenza rispetto ai combattenti palestinesi, ad affrontare una micidiale guerriglia strada per strada, complicata dalla presenza della capillare rete di tunnel costruita negli anni da Hamas.


Dopo un anno di combattimenti, la situazione a Gaza rimane in una fase di stallo: le truppe israeliane controllano la pressoché totalità dell’enclave, anche se limitate azioni di sabotaggio e attacchi vengono regolarmente effettuate dai miliziani islamisti, ma il nodo gordiano di come amministrare un territorio densamente abitato ma dalle infrastrutture distrutte e in cui ogni servizio basilare per la popolazione è assente non è ancora stato sciolto. Inoltre, a rappresentare un’ulteriore incognita, nonché fonte di stallo nelle trattative per arrivare a un definitivo cessate il fuoco, è il futuro dello strategico Corridoio di Filadelfia: lungo circa 14 km e largo poco più di 100 m, questa sottile striscia di terra è da ormai da mesi conteso fra Israele ed Egitto, il quale ne rivendica il possedimento richiamando lo storico trattato di pace siglato con lo Stato Ebraico a Camp David nel 1978. Unico punto di accesso fra la Striscia e l’Egitto, tale corridoio ha vitale importanza per entrambi gli attori: Tel-Aviv lo considera strategico per isolare completamente Gaza dal resto del mondo arabo, inglobandola nei propri confini, mentre Il Cairo ne rivendica la presenza per mantenere una zona cuscinetto demilitarizzata per evitare l’ammassamento di truppe israeliane a ridosso dei propri confini.


Altro ostacolo significativo alla pace resta il problema degli ostaggi: delle 251 persone sequestrate il 7 ottobre, 125 sono tornate a casa grazie a scambi di prigionieri o liberate da azioni mirate delle forze speciali, 70 sono morte, mentre le restanti potrebbero essere ancora nelle mani di Hamas. Il ritorno a casa dei rapiti è per il governo israeliano una condizione irrinunciabile, mentre per il movimento islamista la loro detenzione resta l’unica carta da giocare per spingere lo Stato Ebraico ad accettare una tregua.


Alla luce di questi problemi, immaginare nel breve periodo un qualche tipo di amministrazione per far normale Gaza alla normalità appare improbabile: sostituire il rudimentale ma efficiente sistema di governance instaurato da Hamas negli ultimi anni richiede costi e sforzi enormi, oltre all’appoggio di buona parte dei civili che evidentemente manca. Delegare il governo della Striscia all’Autorità Nazionale Palestinese appare altresì come una proposta priva di credibilità sia per la crescente sfiducia dell’ANP presso la popolazione in Cisgiordania, sia per la crescente erosione della sovranità palestinese da parte israeliana, che incita all’allargamento degli insediamenti coloniali a scapito dei locali. Infine, anche una possibile amministrazione congiunta della Striscia delle autorità israeliane e palestinesi garantita da una forza di peace-keeping delle Nazioni Unite sembra un piuttosto astratto e lontano dalla realtà.

Senza un chiaro piano di ricostruzione e ripresa per il dopoguerra, il futuro di Gaza e dei suoi abitanti è appeso a un filo. Il vuoto di potere causato dall’annientamento di Hamas dovrà essere colmato con un governo legittimo agli occhi della popolazione, che fornisca beni e servizi essenziali, garantendo al contempo pace e prosperità: il rischio è che, qualora il vuoto non venisse riempito, nuove forze, magari ancor più radicali prendano piede nella Striscia, dando vita a un nuovo ciclo di instabilità, violenza e distruzioni. Il caso dell’Iraq post-Saddam, in questo senso, dovrebbe fungere da monito.


Tempesta di fuoco sul Libano

Congelato il conflitto a Gaza, un nuovo fronte di guerra si è aperto a nord. Dopo mesi di scambi di artiglieria a bassa intensità, la tanto attesa escalation fra Israele e Hezbollah, il potente gruppo para-militare libanese, si è concretizzata. Tutto è iniziato con i clamorosi attacchi ai miliziani sciiti effettuati tramite la simultanea detonazione di cercapersone e walkie-talkie che hanno ucciso 37 persone e ferendone altre 4000, poi seguiti da una massiccia campagna di bombardamenti nel sud del Libano e nella Valle della Beqaa per colpire basi militari e logistiche di Hezbollah. L’assassinio della catena di comando del “Partito di Dio”, culminata con l’eliminazione di Hassan Nasrallah, il leader del movimento sciita dal 1992, apre a una nuova fase di incertezza nella regione.


Il 1° ottobre Israele ha annunciato l’inizio delle operazioni di terra nel sud del Libano, con l’obiettivo di distruggere le basi militari di Hezbollah, eliminando le sue capacità di deterrenza e limitandone la potenza di fuoco, così da permettere ai 60mila cittadini sfollati di tornare nelle proprie abitazioni dopo mesi di combattimenti. La storia suggerisce che le campagne militari israeliane in Libano sono state complicate e imprevedibili: l’operazione “Pace in Galilea”, nata con l’obiettivo di eliminare la presenza dei guerriglieri palestinesi insediati nel sud del paese si trasformò in una invasione in piena regola, portando le forze di Tsahal nel cuore della capitale Beirut; Israele ritirò le sue truppe solo nel 2000, dopo 18 anni di occupazione, senza tuttavia essersi sbarazzato dei suoi avversari. Nel 2006 una nuova guerra scoppiò fra lo Stato Ebraico e Hezbollah, terminando in un nulla di fatto, anche se la vittoria venne propagandisticamente rivendicata dai miliziani sciiti; da allora, uno stato di guerra latente era rimasto fra i due lati, culminando a volte in attacchi effettuati contro le postazioni di Hezbollah in Siria, ma senza sfociare in uno scontro diretto.


La morte di Nasrallah e l’offensiva di terra hanno rappresentato un momento di svolta anche nella partecipazione dell’Iran nel conflitto in Medio Oriente: fino ad ora Teheran aveva dimostrato di voler evitare a ogni costo un’escalation, astenendosi dal rispondere militarmente perfino dopo l’umiliante assassinio di Haniyeh a Teheran, avvenuto nel corso della cerimonia di insediamento del nuovo presidente Pezeshkian. L’attacco diretto a Hezbollah, tuttavia, potrebbe rimescolare le carte in tavola: poche ore dopo l’offensiva di terra israeliana, la Repubblica Islamica ha lanciato in rappresaglia circa 180 missili balistici contro lo Stato Ebraico, causando un morto e diversi feriti. L’attacco limitato, anche se in scala maggiore di quello effettuato ad aprile in ritorsione contro il bombardamento del consolato iraniano a Damasco, dimostra come l’Iran continui a ritenere controproducente lasciarsi trascinare in un conflitto aperto, con il rischio di perdere la sua sfera di influenza faticosamente costruita in tutta la regione; tuttavia, ripristinare la propria deterrenza nei confronti del nemico era comunque necessario per continuare a esercitare pressione. La risposta israeliana all’attacco iraniano si concretizzerà nei prossimi giorni, probabilmente concentrandosi sui siti petroliferi o sugli impianti nucleari della Repubblica Islamica, oltre che contro i vertici del regime e dei Pasdaran.


Nel frattempo, la guerra in Libano procede, così come i bombardamenti israeliani su Beirut, con il probabile obiettivo di eliminare Hashem Safieddine, cugino e presunto successore di Nasrallah alla guida di Hezbollah. La conta dei morti ha già superato le duemila unità, provocando una nuova crisi umanitaria dopo quella ancora in corso a Gaza. La possibilità che Israele rimanga impantanato nel sud del paese dei Cedri, costretto a una lenta ma feroce guerriglia contro i miliziani di Hezbollah, è una possibilità concreta. Anche se privato della sua leadership politica e militare, il “Partito di Dio” resta un attore importante, con migliaia di uomini e un arsenale ben più potente di quello di Hamas; inoltre, il continuo traffico di uomini e armi dalla vicina Siria fungerebbe da risorsa vitale per la sopravvivenza del movimento; i recenti bombardamenti israeliani al confine mirano proprio a evitare che questo accada. Inoltre, il timore che l’operazione di terra si trasformi in un’occupazione permanente, così come accaduto nel 1982, è, secondo diversi analisti, un rischio più che concreto.


Guerra locale, crisi globale

La crisi generata dall’invasione israeliana a Gaza ha avuto un impatto globale, trasformando la percezione di Israele e della questione palestinese sia all’interno che all’esterno della regione. Lo stesso attacco di Hamas del 7 ottobre scorso è stato compiuto per ragioni diverse ma unite dal denominatore comune della proiezione dell’immagine di Israele e Palestina verso il mondo esterno. Il massacro è giunto alla vigilia di quello che sarebbe stato uno storico e clamoroso accordo fra Israele e Arabia Saudita, inquadrato nell’ottica degli “Accordi di Abramo”, il processo di normalizzazione nelle relazioni con lo Stato Ebraico da parte di diversi paesi arabi lanciato da Donald Trump nel 2017: se Riyad avesse firmato un accordo di pace con Tel-Aviv, altri paesi arabi avrebbero seguito il suo esempio, isolando sempre di più i palestinesi e i sostenitori della loro causa. Inoltre, l’attacco era volto proprio a dimostrare che la questione palestinese, un tempo in cima all’agenda dei paesi arabi, non deve essere data per persa. Costringendo il nemico a una risposta brutale e spropositata, Hamas sperava di raccogliere ampio consenso, coalizzando intorno a sé i nemici dello Stato Ebraico per ottenere maggiore visibilità e potere, oltre a mostrare al mondo intero l’efferatezza della reazione israeliana.


Dopo un anno di guerra, è tempo di tracciare qualche bilancio. Se da un lato Hamas è riuscito a far tornare accessi i riflettori sulla condizione di occupazione e segregazione dei palestinesi, tuttavia i suoi metodi terroristici hanno alienato al movimento islamista la maggior parte delle simpatie degli osservatori esterni. Solamente gli Houthi, il gruppo ribelle yemenita alleato dell’Iran, è intervenuto a favore di Hamas, attraverso azioni di pirateria e sabotaggio che hanno colpito Israele e i suoi alleati nel loro punto più debole, minacciando il transito delle navi mercantili attraverso lo strategico stretto di Bab-El Mandeb. La minaccia dei ribelli yemeniti ha costretto i paesi occidentali a formare una coalizione per pattugliare le acque dello stretto, arrivando più volte a colpire le postazioni degli Houthi nel cuore del loro territorio.


Molti paesi del “Sud Globale”, tuttavia, hanno criticato aspramente Israele per la violazione dei diritti umani a Gaza e per i bombardamenti in Libano: fra questi non figurano solo paesi arabi, ma anche il Sud Africa, che ha accusato lo Stato Ebraico di genocidio davanti alla Corte internazionale di Giustizia, o la Colombia di Gustavo Petro, che ha rotto unilateralmente le relazioni diplomatiche con Tel-Aviv. La stessa glaciale accoglienza riservata a Netanyahu all’Assemblea Generale dell’ONU lo scorso 27 settembre lascia intendere come la percezione di Israele sia cambiata dopo il 7 ottobre: non appena il primo ministro ha iniziato il suo discorso, molti leader del Sud Globale hanno abbandonato in massa la sala, in segno di protesta contro il massacro a Gaza e i bombardamenti in Libano.


Cosa ne sarà di Hamas e Israele dopo questa guerra?

La guerra, fenomeno trasformativo per eccellenza, ha avuto un impatto decisivo su entrambi gli attori coinvolti. Per quanto riguarda Israele, il conflitto ha ulteriormente aumentato la spaccatura insita nella società fra una parte della popolazione di orientamneto laico e progressista, che vuole prioritizzare il rientro a casa degli ostaggi e la cessazione delle ostilità, e una che invece vede nella guerra un’opportunità per sbarazzarsi, forse definitivamente, dei nemici dello Stato Ebraico, oltre a impossessarsi delle restanti “terre promesse” di Israele, occupate dai palestinesi, ovvero Gaza e la Cisgiordania. La coalizione di estrema destra che supporta Benjamin Netanyahu si è detta contraria a ogni tipo di compromesso o accordo con Hamas e Hezbollah, considerando la completa distruzione del nemico come unico esito del conflitto. La guerra e il costante clima di insicurezza che pervadono Israele dal 7 ottobre giocano a favore delle formazioni dell’ala più assertiva del sionismo messianico, le quali guadagnano consensi fra le frange radicali della popolazione ebrea ortodossa, in costante aumento demografico; il Likud, il partito dello stesso Netanyahu, è dato in netta risalita nei sondaggi, dimostrando come la carta dello stato d’emergenza rappresenti il lasciapassare per la permanenza di Bibi al governo.


Per quanto riguarda Hamas, invece, è più difficile provare a tracciare un futuro bilancio. Il movimento islamista appare oggi in netta difficoltà: i suoi vertici politici sono stati quasi tutti assassinati, basti ricordare l’eliminazione di Saleh al-Arouri, membro di spicco del Politburo di Hamas, a Beirut, o alla clamorosa uccisione del capo politico, Ismail Haniyeh, a Teheran lo scorso agosto, il che lascia conseguentemente più spazio all’ala militare del gruppo, le Brigate Ezzedin al-Qassam. La nomina di Yahya Sinwar a nuovo leader del movimento islamista riflette questo cambiamento: mente degli attacchi del 7 ottobre insieme a Mohammed Deif, altro membro di spicco delle Brigate Qassam, Sinwar era da tempo il comandante dell’ala militare di Hamas a Gaza. La sua nomina al vertice dell’organizzazione rischia di rendere ancor più assertiva e radicale la posizione del movimento, complicando ulteriormente ogni possibile trattativa con Israele.


La guerra in Medio Oriente ci ha riservato a enormi colpi di scena, rendendo praticamente impossibile fare previsioni a lungo termine. Le elezioni americane di novembre poco incideranno sulla questione: il supporto a Israele certamente non si interromperà, ma a cambiare potrebbe essere la postura statunitense verso l’Iran: in caso di vittoria di Trump, Washington adotterà una posizione estremamente dura, chiudendo a ogni forma di negoziato con Teheran, mentre un trionfo democratico porterebbe a un approccio più cauto e costruttivo, rimettendo in discussione l’accordo sul nucleare, da cui proprio l’amministrazione Trump si era unilateralmente ritirata nel 2018.


Ciò che oggi appare certo è che la guerra proseguirà fino a quando il nodo degli ostaggi non sarà risolto, il quale rappresenta la conditio sine qua non per un cessate il fuoco israeliano, oltre all’eliminazione dei vertici di Hamas ancora in vita. Dopo un anno, sono più gli interrogativi che le certezze a delineare il futuro di questa guerra. Il Medio Oriente, e il mondo, resteranno ancora a lungo col fiato sospeso.





Image Copyright: SAID KHATIB / AFP via Getty Images

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