
Ogni 8 marzo le donne ricevono auguri e vengono festeggiate in quanto donne, ma di fronte alle innumerevoli ingiustizie che quest'ultime vivono sulla propria pelle ogni giorno, noi di Fuori Rotta, la sezione di Koinè dedicata ai diritti civili, oggi decidiamo di offrirvi una serie di motivi per cui riteniamo non ci sia nulla da festeggiare e decidiamo di non farlo...o meglio, di farlo in modo consapevole.
Buona lettura e buona giornata internazionale della donna.
NON FESTEGGIO PERCHÈ
di Lucrezia Passarelli
L’8 marzo non festeggio la “festa della donna” perché non è una festa: la giornata internazionale della donna è un’occasione per rivendicare diritti.
Una delle critiche che viene maggiormente mossa a chi afferma che le donne vogliano rivendicare i propri diritti è che quest’ultime hanno già tutti i diritti, ma non è così, sono vari gli studi che affermano che per raggiungere la parità di genere ci vorranno 134 anni ed è per eventi come guerre, catastrofi naturali o simili che questo processo di parificazione dei generi subisce battute d’arresto o, peggio, fa passi indietro.
Qual è, quindi, l’immagine della donna che vogliamo “festeggiare”?
In un’Italia conservatrice come quella che conosciamo l’immagine di donna che ci viene restituita è quella di madre, moglie, “guerriera”, insomma, un abito stretto cucito sul corpo delle donne che non sempre vengono considerate in virtù delle proprie qualità, professionali o personali.
La normalizzazione di questa condizione è tale che se in prima serata Geppi Cucciari al festival di Sanremo fa una battuta chiaramente provocatoria, si fa difficoltà anche a comprenderla. Cucciari, infatti, afferma che Conti è un grande conduttore, ma soprattutto un padre.
È qui che vediamo il doppio standard: ciò che per gli uomini viene percepito solo come una simpatica battuta, per le donne è la normalità. Gli uomini sono socialmente percepiti prima professionisti e poi, eventualmente, padri.
L’immagine di donna che ci viene proposta, quindi, è quella della super eroina, della madre e moglie che, se lavora, deve riuscire a conciliare la famiglia e il lavoro, spesso rinunciando alle possibilità di avanzamenti di carriera perché costrette a un lavoro extra non retribuito: il lavoro di cura.
Questo ce lo dimostrano i dati: le donne impiegano mediamente 5 ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno a differenza gli uomini che svolgono tale lavoro per 1 ora e 48 minuti al giorno.
Quanto detto non vuole sminuire l’immagine della madre, ma vuole sottolineare la difficoltà di essere tale in un paese come l’Italia in cui le donne sono costantemente costrette a scegliere tra la famiglia e la carriera, entrando in un circolo vizioso per cui se sceglie la famiglia si rinuncia al proprio lavoro (e questo espone la donna a problematiche come la povertà pensionistica o l’essere economicamente dipendente da un uomo e, quindi, poter subire violenza economica), viceversa, se si sceglie la propria carriera, poi, si subiscono i giudizi sociali e privati legati alla volontà di non aver avuto figli.
Insomma, è evidente che non possiamo considerare questo un problema individuale delle singole donne, ma una questione collettiva che può trovare soluzioni solo tramite azioni politiche concrete che permettano una chiara indipendenza della donna e di conseguenza una maggiore parità anche nella sfera familiare.
Viviamo in un mondo fortemente disparitario e francamente la voglia di festeggiarci è poca.
NON FESTEGGIO PERCHÈ
di Emanuela Carbone
Non festeggio l'8 marzo perché dietro alle stucchevoli rime fiore-cuore-amore, quando si sposta l’attenzione sul soggetto dicotomico “donna-madre”, la mimosa di circostanza non è sufficiente a mascherare l’amaro gioco di chiaroscuri interpretato dalle pressioni sociali, dalle violenze ripetute e dalla mancanza di supporto sanitario.
Mentre il mondo spinge incessantemente le donne a essere madri, sottintendendo alla natalità un obbligo biologico, con qualche nota di predestinazione biblica al partorire con dolore, la realtà spesso non corrisponde a questa aspettativa. L’equilibrismo richiesto nell’essere donna-madre in questo momento storico non combacia con la contemporanea mancanza di supporto dal personale sanitario, specie tra donna e donna, in un campo in cui la solidarietà̀ sembra essere ormai dimenticata.
I numeri dell’indagine realizzata dalla Doxa per conto dell’OVO (Osservatorio sulla violenza ostetrica in Italia) parlano chiaro: il 21% delle donne intervistate dichiara di aver subito abusi o violenze durante la prima esperienza di parto; di queste, il 40% è stata vittima di pratiche lesive per la propria dignità psicofisica (partorire sdraiata con le gambe sulle staffe, essere esposta nuda di fronte ad una molteplicità di soggetti, essere umiliata verbalmente durante il parto). Inoltre, il 54% delle partorienti ha riferito di aver subito un'episiotomia, un intervento invasivo sconsigliato dall'OMS, al quale il 61% non ha mai dato il proprio consenso informato.
Il parto diventa quindi il culmine di un'escalation di micro-violenze psicologiche e fisiche che segnano profondamente l'esperienza della maternità: il trauma non è temporaneo, le violenze si ripercuotono a lungo termine sulla salute mentale delle donne che sviluppano sintomi di depressione post-partum. Questo fantasma rappresenta la complicanza psichica più rilevante del puerperio, con una prevalenza stimata nel mondo occidentale tra il 10% e il 15% delle donne che partoriscono.
Di fronte ad uno scatto così oggettivo del fenomeno, si mostrano chiari i contorni di una condizione femminile ben lontana dall’auspicata parità: non c’è niente da festeggiare quando cala il sipario e la realtà resta immutata e violenta. Urge un cambiamento profondo, di tutela e solidarietà, che metta al centro la salute delle donne, che ridefinisca la maternità da sacrificio imposto a scelta volontaria e degna di supporto. La mimosa è pur sempre un fiore reciso dall’albero: non basta gioire dell’apparenza dei frutti, bisogna prendersi cura delle radici.
NON FESTEGGIO PERCHÈ
di Giulia Mezzabotta
Non festeggio l’8 marzo perché vivo ancora in una società sessualmente oggettivante e, quindi, complice nella violenza di genere e questo contesto sociale manifesta spesso una carenza di empatia e una limitata capacità di immedesimazione in dinamiche complesse, aggravando il problema.
La combinazione tra la tendenza a disumanizzare le donne e la legittimazione dell'oggettivazione sessuale alimenta un aumento della violenza, dalle molestie alla violenza domestica, fino allo stupro. È evidente come, in casi di violenza sessuale, la narrazione dominante tenda frequentemente a ribaltare la prospettiva, giustificando o minimizzando l’aggressione.
Il processo di colpevolizzazione della vittima, esemplificato dal giudizio sull'abbigliamento, assume un ruolo cruciale: questa dinamica non solo intensifica la violenza, ma attribuisce alla vittima una parte di responsabilità per l'abuso subito. Tale fenomeno, noto come victim blaming o colpevolizzazione della vittima, instaura un circolo vizioso che genera vittimizzazione secondaria e ostacola l'attivazione di un supporto adeguato.
Questa realtà compromette profondamente la relazione delle donne con il proprio corpo e la propria sessualità, imprigionandole in una dicotomia storica e culturale che le relega al ruolo di sante o oggetti disponibili per gli uomini.
E ad aggravare la considerazione di se stesse è anche l’oggettivazione sessuale proveniente dai canali di comunicazione mass-mediatica che inducono a sottoporsi a determinati modelli accentuando l’attenzione all’estetica e facendo avvertire un forte bisogno di definirsi attraverso l’esterno, il che influisce sulla loro rappresentazione sociale.
Pertanto, l'oggettivazione sessuale ha un effetto disumanizzante che va a privare le donne della loro umanità e dignità colpendo sia coloro che si auto-oggettivano sia coloro che vengono oggettivate dagli altri.
L'oggettivazione sessuale e la violenza di genere spesso affondano le radici in una rigida interiorizzazione delle norme sociali legate al genere e alla sessualità, rafforzata dalla rappresentazione sessualizzante proposta dai media. Per promuovere un cambiamento sociale autentico e duraturo, è imprescindibile adottare un linguaggio inclusivo e investire nell'educazione all'affettività e alle relazioni, favorendo così una visione più consapevole e flessibile di mascolinità e femminilità. Solo in questo modo si può contribuire al benessere individuale e alla costruzione di una società più equa e rispettosa.
NON FESTEGGIO PERCHÈ
di Alessia Di Lorenzo
Tra le diverse forme di violenza di genere, quella economica non viene ancora riconosciuta come tale. Appare silenziosa e subdola, un tabù della gestione finanziaria che esiste ancora nelle relazioni sentimentali.
La dipendenza economica della donna da parte del suo partner viene ancora spesso taciuta e normalizzata all’interno dell’ambiente domestico. Questa genera un tipo di violenza strettamente legata ad altre prassi più conosciute come violenza sessuale, psicologica e abusi sulla sfera fisica della vittima. Oggi non festeggio perché nonostante si parli tanto di violenza di genere, la dipendenza economica della donna ed i comportamenti di sopraffazione del partner che ne conseguono non vengono spesso riportati alla luce, né nel dibattito pubblico, né in materia di procedimenti legali. Cos’è la violenza economica?
Termine spesso ancora poco conosciuto, l’EIGE – European Institute for Gender Equality – la definisce come atto di controllo e monitoraggio di un soggetto in termini di utilizzo e distribuzione del denaro, con costante minaccia di negare le risorse economiche. Secondo un articolo dell’Ansa, quasi la metà delle donne vittime di violenza dipende economicamente dal partner. Tra le donne che nel 2020 hanno iniziato un percorso personalizzato di uscita dalla violenza, solo il 35,5% era occupato stabilmente, mentre il 48,7% risultava non autonomo. Si è notato come la frequenza delle violenze di genere sia superiore in donne dipendenti economicamente, rispetto a donne che hanno il proprio reddito. Queste, inoltre, sono anche più soggette a violenza fisica, stupro, e violenza economica.
Volendo interpretare le statistiche, nel concreto significa che una donna che dipende economicamente dal proprio partner denuncerà raramente le violenze subite. Il perché è molto semplice: c’è una totale mancanza di mezzi economici per poter uscire da questa situazione. La violenza economica si manifesta in differenti modi infatti; ad esempio, l’imposizione di limiti sulla gestione del proprio patrimonio personale, oppure in caso di separazione la mancata effettuazione del pagamento degli alimenti. Ma esiste una modalità ancora più subdola che è quella di impedire alla donna di lavorare. Senza lavoro, infatti, la donna diventa un soggetto non autonomo e manipolato dal partner, perché non può scegliere di liberarsi dalla condizione di oppressione in cui versa. Da qui l’importanza dell’indipendenza economica, che consente alle donne di sottrarsi a diversi tipi di violenze e di avere libertà non solo di scelta, ma anche di movimento. Il lavoro e l’occupazione femminile rappresentano allora un valido argine contro la violenza economica.
Ad oggi, la violenza economica non viene definita come reato a tutti gli effetti ed è per questo complesso definirne una pena a riguardo. Questa difficoltà riguarda sicuramente il fatto che di violenza economica si è cominciato concretamente a parlare solamente nel 2011 con la Convenzione di Istanbul. In Italia, invece, il fenomeno non è oggetto di una disciplina specifica.
Ancora moltissime donne oggi in Italia subiscono questo tipo di violenza, che condiziona prima di tutto la loro libertà, rendendole spesso soggetti imprigionati nelle mura di casa. La cultura patriarcale è allora non solo diffusa ancora in maniera capillare nelle mentalità della nostra società, ma continua a mietere vittime, rendendo le donne – spesso madri di famiglia che si occupano del lavoro domestico – soggetti non autonomi. Non tutte, dunque, hanno materialmente i mezzi per poter uscire da condizioni di sopruso e vessazione. Situazione resa ancora più problematica da un evidente gap legislativo, che lascia le donne da sole ed incapaci di potersi liberare da questa condizione. Cosa c’è da festeggiare?
NON FESTEGGIO PERCHÈ
di Denise Capriotti
L’8 marzo non festeggio perchè non mi sento protetta.
Nel 2024, in Italia, sono stati registrati 98 omicidi di donne fino al 10 novembre. Di queste, 84 sono state uccise in ambito familiare o affettivo, e 51 per mano del partner o ex partner.
L’Osservatorio Diritti segnala che nei primi sei mesi del 2024 sono stati commessi oltre 2.900 casi di violenza sessuale e più di 8.500 atti persecutori.
Nonostante l'introduzione del "Codice Rosso" nel 2019, che ha introdotto misure per accelerare le indagini e aumentare le pene per i reati di violenza domestica e di genere, la situazione rimane critica. La legge 168/2023, nota come "DDL Roccella", ha potenziato ulteriormente il Codice Rosso, ma le statistiche indicano che molte donne continuano a subire violenza senza ricevere adeguata protezione.
Le denunce non bastano. Molte donne non ricevono il supporto necessario e molte non denunciano per mancanza di fiducia nelle istituzioni.
Nel novembre 2023, un post pubblicato sulla pagina Instagram della Polizia di Stato ha scatenato un acceso dibattito pubblico, mettendo in luce una questione delicata che coinvolge molte donne italiane: la mancanza di ascolto e di supporto da parte delle forze dell'ordine in situazioni di abuso.
Il post, che inizialmente sembrava una comunicazione ordinaria, ha generato una valanga di commenti da parte di donne che, in quella occasione, hanno voluto raccontare le loro esperienze personali. La denuncia era chiara: troppo spesso, quando si trovano di fronte a episodi di violenza o abuso, le donne non vengono credute o, peggio ancora, vengono ignorate dalle autorità.
"È sicura delle sue accuse? Ci pensi bene prima di rovinare la vita a questo ragazzo" (Benedicta).
"Sono stata inseguita in macchina da uno sconosciuto che mi ha quasi speronato e mi ha urlato le peggio offese. Voi vi siete preoccupati di chiedermi perché alle 3 di notte tornassi a casa da sola in macchina da una festa e "non è che magari questo era alla festa e gli ha fatto credere chissà che?'" (Marianna).
"Quando sono stata picchiata alle 20:30 di una sera di dicembre mi avete chiesto se mi sembrasse il caso di passeggiare da sola per le strade buie" (Francesca).
"Come quella volta che mi diceste: "signorina, ma cosa ha fatto per farlo ingelosire?" (Cecilia).
Le testimonianze emerse nei commenti sono state numerose e sconvolgenti. Centinaia di donne hanno descritto episodi in cui si sono trovate a denunciare situazioni di abusi, solo per vedersi respinte o minimizzate dalle forze dell'ordine. Le parole di queste donne raccontano di essere state lasciate sole nel momento del bisogno, spesso senza alcun supporto concreto, aggravando il senso di abbandono e la sfiducia nelle istituzioni.
Questa reazione collettiva ha svelato un fenomeno che da tempo aleggiava nell'ombra: un sistema che non sempre sa o può proteggere le donne in difficoltà.
Il caso ha anche sollevato interrogativi più ampi sul rapporto tra le forze dell'ordine e le vittime di abusi, e sulla necessità di una maggiore formazione e sensibilizzazione su questi temi.
NON FESTEGGIO PERCHÈ
di Cecilia Isidori
In occasione dell'8 marzo, Giornata Internazionale dei diritti delle Donne, io scelgo di non festeggiare.
Non ci sarà nulla da festeggiare finché la parità di genere nel mondo del lavoro rimarrà un miraggio lontano. I dati parlano chiaro: nel mondo, in tutta Europa e anche nel nostro paese, le donne continuano a subire discriminazioni salariali e professionali che non possiamo ignorare.
Il World Economic Forum ha dato vita, nel 2006, al Global Gender Gap Index, uno studio che monitora nel tempo i progressi dei paesi per colmare il divario retributivo di genere, ossia la differenza tra la retribuzione media lorda di uomini e donne.
Nel 2024, l’indice ha preso a riferimento 146 economie e tra queste l’Italia è scivolata al 87º posto, perdendo 8 posizioni rispetto all’anno precedente, e ciò segnala un rallentamento nell’attuazione di politiche volte alla riduzione del gap salariale.
Restringendo il campo all’Europa, i dati della Commissione Europea attestano che nel 2024 le donne hanno guadagnato il 13% in meno rispetto agli uomini.
Questi dati non rappresentano solo gravi ingiustizie economiche ma anche veri e propri ostacoli all'autonomia e alla realizzazione personale e professionale delle donne.
Le cause delle disuguaglianze di genere nel mondo del lavoro sono profonde e strutturali.
Le donne, infatti, sono spesso costrette a scegliere lavori part-time o ad interrompere la carriera per occuparsi della famiglia, subendo la cosiddetta “motherhood and caregiver penalty” nonché, secondo gli studi, una riduzione della retribuzione oraria del 5% per figlio rispetto alle donne senza figli.
Le statistiche mostrano che le donne dedicano una parte significativa del loro tempo al lavoro non retribuito – come la cura dei figli e della casa – un peso che grava in modo sproporzionato su di loro. Nel 2021, il 30% delle donne ha lavorato part-time, contro appena l'8% degli uomini. Inoltre, nel 2018, un terzo delle lavoratrici europee ha dovuto lasciare il lavoro per motivi di assistenza familiare, a fronte di appena l’1,3% degli uomini. Le donne sono presenti in misura maggiore nei settori a basso salario, come l'assistenza, la sanità e l’istruzione, dinamica che determina il 24% del divario retributivo complessivo.
La disparità emerge chiaramente anche nei ruoli dirigenziali: nel 2020, solo il 34% dei dirigenti nell’UE erano donne, nonostante queste rappresentino quasi la metà dei lavoratori. Il divario salariale è ancora più marcato tra i manager, dove le donne guadagnano il 23% in meno all'ora rispetto ai loro colleghi uomini.
Di fronte a questi dati, cosa c’è da festeggiare?
La Giornata Internazionale dei diritti delle donne dovrebbe essere un momento di riflessione, denuncia e sensibilizzazione, non di celebrazione vuota.
Oggi come ogni giorno, non vogliamo fiori, ma azioni concrete di decostruzione del patriarcato in ogni luogo.
NON FESTEGGIO L'8 MARZO PERCHÈ... O MEGLIO, LO FESTEGGEREI IN MODO CONSAPEVOLE
di Sofia Lazzarini
Il portato storico dell’8 marzo appare oggi sempre più banalizzato e dimenticato. Stordite da mimose e da “auguri” di cortesia o abitudine, quante persone conoscono le origini di tale giornata di sciopero, cura, rabbia e liberazione? Probabilmente poche, anche a causa delle forze politiche e dei libri di storia che da sempre non ne hanno molto parlato. Come ricordava Mariarosa Dalla Costa, nota femminista padovana degli anni Settanta, in fin dei conti:
“Le mimose non le abbiamo inventate noi, le hanno inventate gli uomini che cercano di farci dimenticare il significato dell’8 marzo. Le mimose sono un’invenzione del Partito Comunista, le mimose non hanno niente a che fare con quello per cui noi lottiamo questo 8 marzo” (Collettivo Internazionale Femminista, 1974: 26).
Ma andiamo con ordine e forniamo alcune informazioni essenziali per darci una possibile risposta: l’8 marzo 1908 più di 15mila operaie della fabbrica Cotton di New York dichiararono sciopero, il padrone chiuse le porte e a causa di un incendio 129 lavoratrici morirono all’interno della struttura. La storia del movimento operaio, tuttavia, pur celebrando simili momenti di lotta e d’occupazione, sembrò rimuovere questo fatto per lungo tempo. Fu solo grazie all’incontro di Copenaghen, tenutosi durante il VIII Congresso dell’Internazionale socialista nel marzo 1910, che si scelse di fare dell’8 marzo la Gionata internazionale delle donne per tramandarne le memorie (tale giornata verrà fissata ufficialmente dall’ONU solo nel 1975). Eppure, anche questo 8 marzo 1910 non venne riportato su molti libri. Ma procediamo. 8 marzo 1917, siamo a Pietroburgo, le operaie tessili scioperarono per richiedere la fine della Prima guerra mondiale e opporsi ai ritmi disumani e alienanti della fabbrica: a catena anche gli operai fecero lo stesso e seguirono le donne nelle caserme per partecipare in armi all’insurrezione: eravamo agli albori della Rivoluzione russa.
Quest’ultime, dunque, non diedero solo il via a rivoluzioni e a scioperi, lottando e morendo per le proprie rivendicazioni, ma furono la stessa forza portante di ogni rivoluzione e di ogni guerra di liberazione. Peccato che le narrazioni storico-memoriali, incentrate su soggetti maschili e su di una Storia evenemenziale e statica, per secoli non ce ne abbiamo parlato. Ricollocare tale giornata all’interno di un quadro temporale preciso, ci permetterebbe infatti di comprenderne meglio le cause e gli obiettivi di lungo periodo. Certo, oggi l’8 marzo ci pare più come un giorno di festa che di commemorazione e ricordo. Ma ha senso festeggiarlo in modo disinteressato, inconsapevole e acritico? Negli anni Settanta, alcune femministe organizzavano non una, ma più giornate di celebrazioni, ponendo però una condizione fondamentale: queste dovevano restare un momento di autodeterminazione e di riappropriazione politica della propria storia e dei propri diritti, evitando di trasformarsi in una semplice ricorrenza superficiale o strumentalizzabile a fini politico-capitalistici. Festeggiamo dunque sì l’8 marzo ma mantenendolo legato sia alle sue origini rivoluzionarie che alle necessità ed alle problematiche del presente citate negli articoli precedenti per far sì che ogni anno, al di là delle mimose, ci ricordi anche d’altro. Forse, se ne fossimo tutti e tutte più consapevoli, sarebbe davvero in primis un giorno di lotta, sciopero e di liberazione e poi di celebrazioni.
“Cantiamo, suoniamo, balliamo perché ogni momento di lotta per noi è un momento di festa. Festeggiamento il fatto che sempre più organizzandoci troviamo la forza di liberarci da chi ci sfrutta e da chi ci opprime ovunque” (Comitato Triveneto per il Salario al Lavoro Domestico, 1976: 3).
BIBLIOGRAFIA
-https://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=53906&utm_source=chatgpt.com
title=Gender_pay_gap_statistics
di-genere-le-donne-guadagnano-meno-degli-uomini-nell-ue
rights/gender-equality/equal-pay/gender-pay-gap-situation-eu_en
-Collettivo Internazionale Femminista (1974), 8 marzo 1974. Giornata internazionale di lotta delle donne, Venezia, Marsilio Editori (https://www.bibliotechecivichepadova.it/sites/default/files/opera/documenti/sezione-4-serie-7-sottoserie-4-243.pdf)
-Comitato Triveneto per il Salario al Lavoro Domestico (1976), Le operaie della casa, Venezia, Marsilio Editori (https://archivioautonomia.it/blog/le-operaie-della-casa-n-0/)
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