di Caterina Amaolo
Per millenni la cultura è stata possesso e opera di élites specializzate e ristrette. Da mezzo secolo le masse sono entrate a pieno titolo − e a gamba tesa − in un territorio a loro, fino ad un certo momento, precluso.
Questo momento è racchiuso in una data reale e allegorica insieme, che sottende a sè stessa un significato metaforico: il Sessantotto. Premesso che chi scrive questo articolo è nato postumo e per questo non lo ha vissuto in prima persona, il Sessantotto col suo portato allegorico ha segnato una faglia profonda e ha riscritto i rapporti fra le età della vita, il rapporto con l’autorità genitoriale e religiosa, il rapporto tra i sessi, il rapporto col sesso e col corpo; ha ridisegnato l’habitus, i costumi, il rapporto tra Es e Super-Io.
Quando: il Sessantotto
Il Sessantotto è stato l’ultimo episodio delle rivoluzioni sociali moderne ed è l’ultima cifra di una serie di date allegoriche che scandiscono un intero secolo: 1789, 1848, 1871, 1917. Le strutture di fondo che il Sessantotto vuole abbattere sono la gerarchia, e l’idea che ogni sistema sociale comporti necessariamente dei rapporti di subalternità, l’alienazione del lavoro e l’isolamento, l’idea che il capitalismo spezzi ogni forma di solidarietà separando le persone e mettendole le une contro le altre. Le più importanti parole d’ordine del Sessantotto provengono da questo nucleo.
Ma il Sessantotto è stato due cose diverse che per decenni sono apparse indistinguibili. Da una parte il Sessantotto profondamente rivoluzionario, quello più glorioso ma allo stesso tempo fallimentare. L’utopia di fondo di questo Sessantotto richiama il comunismo e recupera il mito della Comune, dei Soviet e dei consigli operai. A queste forme di gestione della Cosa Pubblica si ispira la più importante modalità deliberativa che il Sessantotto ha introdotto: l’assemblea.
Dall’altra parte, un Sessantotto che ingloba in se stesso un nucleo capitalista. Lo spirito rivoluzionario di questo Sessantotto è libertario, privato, anarchico e individualistico. Esso è stato vissuto prevalentemente come un’emancipazione e ha segnato il passaggio da una società borghese superegotica, fondata sull’ascesi intramondana, sul controllo di sé e degli altri, sull’etica del sacrifico e della legge, su un modo di condurre l’esistenza privata estremamente vincolato da norme collettive che contavano molto; a una società che, priva di questa corazza, rende liberi alcuni comportamenti privati. In questo senso, il Sessantotto annuncia una rivoluzione interna alle società capitaliste: la sostituzione della vecchia borghesia bigotta e perbenista, con una middle class disciplinata sul lavoro ma anarcoide nei momenti di dèpense (Cfr. Aron, Lasch, Žižek, Pasolini, Houellebecq). Lo spirito di questo Sessantotto rivoluzionario, è diventato parte fondamentale del sistema di governo contemporaneo, ha cambiato la vita di miliardi di persone, ha portato delle conquiste a cui la maggior parte di noi oggi non vorrebbe rinunciare; ma queste conquiste restano comunque estranee al progetto di rivoluzione che il primo lato del Sessantotto si proponeva di realizzare (Mazzoni 2015: 102-110).
Il primo lato del Sessantotto ha fallito. Tuttavia, ne è rimasto un residuo: il Sessantotto era nato come un movimento di protesta studentesca interno alle università e per la prima volta vedeva individui che fino a quel momento non avevano avuto il diritto di parlare in prima persona e per sé stessi, prendere la parola. In questo senso, la presa di parola è il prolungamento del gesto politico costitutivo delle assemblee rivoluzionarie.
Perché
Uno dei saggi più belli sul maggio del 1968, è La Prise de parole di Michel de Certau. Scrive de Certau che se nel luglio del 1789 era stata presa la Bastiglia, nel maggio del 1968 venne presa la parola (De Certau 2007: 113). Persone, cioè, che in mancanza di un principio di autorevolezza, fino a quel momento avevano vissuto nel silenzio e per delega, entrarono con forza sulla scena pubblica e rivendicarono il diritto di esprimere la propria opinione su tutto. Benché irrilevanti in rapporto alla totalità, benché marginali, seriali e caduchi, i desideri, gli scopi, le tracce degli individui si vedono attribuire, ora, un’importanza soggettiva assoluta.
Ora: la presa di parola è un fenomeno duplice e diviso. Lo è perché accorcia la distanza, un tempo incolmabile, tra élite e massa; lo è perché la presa di parola generalizzata ha esiti inevitabilmente microidentitari. I social network sono il compimento di questa metamorfosi democratica iniziata almeno mezzo secolo fa. Nel mezzo, si è verificato un processo di scolarizzazione di massa che ha acuito il portato del fenomeno.
Due sono le conseguenze: la presa di parola e la scolarizzazione di massa, hanno permesso agli esseri particolari di diventare attivi, di pubblicare, intervenire, commentare ed esporsi, sebbene le loro idee siano sempre troppo approssimative per abbracciare la tridimensionalità del vero.
La seconda è che la rete è un luogo di massa e, come tutti i luoghi di massa, dall’assemblea allo stadio, è governata dalla psicologia delle folle (Cfr. sul tema Le Bon, Ortega y Gasset, Canetti, Lyotard), mentre la discussione razionale, in linea di principio, dovrebbe seguire una logica opposta.
Come
Persone che avevano una firma si scontrano con personaggi dal nickname idiota in cerca della spettacolarizzazione di sé. Le affinità letterarie e politiche sembrano contare tanto quanto gli interessi, le convenienze, le amicizie, che peraltro si sfasciano e si riformano vorticosamente, come succede in un’epoca nella quale gli interessi personali contano più delle appartenenze (Lasch 1981: 245-47). Internet è la sede dell’autorialità di massa e dei suoi generi archetipici – il racconto di sé, la creazione artistica e l’opinione personale. Non è il luogo dove di solito si va per imparare qualcosa da qualcuno che, su un certo argomento specifico, ne sa più di noi. Può essere, di rado, un luogo di confronto e di dialogo; più spesso è una galleria degli specchi. Al contrario di quello che si diceva vent’anni fa, quando la rete era ai suoi albori, essa non è né anticonformista nè ribelle. È al tempo stesso orizzontale, segmentata e tendenzialmente gregaria.
Orizzontale perché qualunque forma di autorevolezza deve rilegittimarsi di continuo davanti a un pubblico di inesperti che però rivendicano un diritto di parola. Segmentata perché è fatta di bolle immerse nel flusso dell’opinione mainstream, come la società di cui sono specchio. Le discussioni sono spesso selvagge e includono una quantità enorme di equivoci e di errori; la riflessione razionale si mescola senza filtri alla ricerca di visibilità, all’espressione di sé o all’esibizionismo puro. Il dibattito è, quasi sempre, orizzontale e caotico. La dépense è estrema: alcuni dibattiti durano per giorni, o settimane, inseguendo un sentimento del tempo che qualche anno fa era assolutamente sconosciuto. Nello spazio dei social network, sospeso fra pubblico e privato, non conta imparare qualcosa dagli esperti, perché gli esperti hanno ormai un mandato debole: conta essere attivi, dire la propria immettendosi nel flusso di un’opinione forte, in alcuni casi per formare una muta (Canetti), in altri per schierarsi contro quell’opinione forte, nell’atteggiamento dell’anticonformista seriale o dell’eccentrico.
Ora, se la democratizzazione della cultura è una conquista immensa, la cultura in sé non è democratica, ed è l’opposto della chiacchiera e della doxa. I social network oggi, ci comunicano un’immagine tocquevilliana dello stato di cose: raccontano un mondo diviso in monadi idiosincratiche poste in un intero; ciascuna soggettivamente singolare nella sua oggettiva serialità, ciascuna assoluta nella sua assoluta relatività. Uno dei più notevoli romanzi contemporanei, si apre con un incipit che racchiude in modo eloquente questa dialettica «Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità. Le mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa […]» (Siti 2015: 1-2).
Di fronte a questa contraddizione che non può essere risolta ma solo vissuta, ho una forma di disagio.
BIBLIOGRAFIA
-Canetti E., (1981), Massa e potere, Milano, Adelphi.
-De Certau M., (2007), La presa della parola e altri scritti politici, Milano, Maltemi.
-Harvey D., (2015), La crisi della modernità, Milano, il Saggiatore.
-Lasch C., (1981), La cultura del narcisismo, Milano, Bompiani.
-Mazzoni G., (2015), I destini generali, Milano, Laterza.
-Ortega y Gasset (2017), La ribellione delle masse, Milano, Mondadori.
-Siti W., (2015), Troppi paradisi, Bologna, Rizzoli.
-Tocqueville A., (1999), La democrazia in America, Bologna, Rizzoli.
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