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GIRKIN: l'uomo di Putin nel Donbas

Writer's picture: Koinè JournalKoinè Journal

di Francesco Ranieri.


Il distretto di Bibirevo si estende al confine nord-orientale di Mosca, proprio lì dove le ultime propaggini della metropoli iniziano a diradarsi e lasciano spazio a folti boschi e campagne aperte. Da queste parti, il cemento dei palazzi di epoca sovietica si sfuma nel verde delle strade alberate e dei giardini pubblici. A poche centinaia di metri dalla superstrada che segna il confine con il distretto di Lianozovo, circondata da vie strette su cui torreggiano edifici residenziali a più piani, sorge una scuola. È una scuola come molte altre a Mosca. Anzi, è talmente anonima da essere nota semplicemente come ‘Scuola Secondaria N.254’, con sede in Shenkurskiy Proyezd, numero 8G. Proprio lì di fronte, appena al di là di un parcheggio e di un’aiuola non curata, si trova il civico 8B. È un palazzo piuttosto alto ed è facile immaginare che, dai piani superiori, si riesca a far correre lo sguardo sui boschi della vicina foresta e forse persino oltre, al di là del raccordo autostradale e del polo commerciale, fino al villaggio di Veshki.

 

Nel febbraio 2014 in questo edificio, nell’appartamento numero 136, vive un uomo. Si chiama Igor Vsvevolodovich Girkin. Magro, occhi verdi e, sotto il naso regolare, un paio di baffi ben curati. In poche parole, un membro qualsiasi della piccola borghesia moscovita. Tuttavia, c’è da immaginare che i suoi vicini, che lo descrivono come un uomo tranquillo e molto gentile, nelle ultime settimane non l’abbiano più visto passeggiare sotto gli alberi di Shenkurskiy Proyezd, né salire lentamente le scale del civico 8B. Questo perché Igor Vsvevolodovich Girkin, che qualcuno conosce anche come Igor Ivanovic Strelkov e qualcun altro come Sergey Viktorovich Runov, da qualche tempo non è a Mosca. Si trova infatti a più di 1.200 chilometri dalla capitale russa, nella città di Sebastopoli, in Crimea, Ucraina. Il fatto, di per sé, non sarebbe strano. Dopotutto, sono moltissimi i cittadini russi che trascorrono periodi di soggiorno nelle località di villeggiatura sul Mar Nero.


Tuttavia, Igor Vsvevolodovich Girkin non è un cittadino come gli altri. Nemmeno quel febbraio è un febbraio come gli altri. Il presidente ucraino Yanukovich, alleato e amico di Mosca, è travolto dalle proteste delle centinaia di migliaia di persone che manifestano contro il suo governo, incapace e corrotto. Le bandiere ucraine sventolano di fianco a quelle europee, in scene che ricordano molto ciò che sta accadendo oggi in Georgia. Le milizie governative, con il supporto di infiltrati delle forze di sicurezza russe, sparano sulla folla, e i morti si ammassano a decine per le strade di Kyiv. Alla fine, però, la pressione è troppa e il presidente è costretto a fuggire. ‘Euromaidan’: questo è il nome che è stato dato alla rivoluzione del 2014. Quelle proteste, però, prima che essere pro-Europa sono antigovernative e, conseguentemente, antirusse. Infatti, con Yanukovich, l’ingerenza di Mosca si era fatta così penetrante che agenti dei servizi di sicurezza russi (FSB) o dell’intelligence militare (GUR) operavano indisturbati nei ministeri e negli apparati ucraini, ed il governo era diventato poco più che un fantoccio nelle mani del Cremlino.


La fine del governo Yanukovich viene dunque accolta con giubilo in quasi tutto il Paese, ma mentre ancora le persone affollano le piazze cantando e sventolano con orgoglio la bandiera gialla e azzurra, Mosca fa la sua mossa. Nella notte tra il 26 e 27 febbraio, forze speciali russe, sotto le mentite spoglie di milizie locali, attaccano le basi dell’esercito ucraino in Crimea, prendono il controllo del Consiglio Supremo, radunano forzatamente i deputati e li obbligano, sotto la minaccia delle armi, a votare in favore dell’annessione alla Russia. Qualche settimana più tardi, anche nell’Ucraina orientale la situazione precipita.


Il Donbas in breve


La storia del Donbas è breve ma complessa. Il territorio, il cui nome è una crasi di Donets Coal Basin (Bacino Carbonifero di Donets), si estende geograficamente tra l’estremità orientale dell’Ucraina e la Russia meridionale. La sua storia risale principalmente all’epoca sovietica, quando l’impulso industriale portò un discreto sviluppo e un grande afflusso di lavoratori in una zona che, sebbene abitata sia da russi che da ucraini, era sempre stata considerata periferica sia da Mosca che da Kyiv. Oltre allo sviluppo dell’industria pesante, fu la tragedia di Holodomor (la morte di milioni di ucraini nella carestia che seguì le politiche di collettivizzazione dell’URSS del 1932-1933) a cambiare il panorama demografico della regione, svuotando il territorio dalla maggioranza ucraina e rimpiazzandola con l’arrivo di centinaia di migliaia di russi. Se questo ha, da un lato, facilitato la costituzione di un legame tra la popolazione del Donbas ucraino e Mosca, dall’altro occorre sottolineare come difficilmente gli eventi successivi alla dissoluzione dell’URSS e le successive tensioni tra le comunità locali e Kyiv si possano spiegare tramite un discorso di “identità” o, ancor meno, di “etnia”.

 

Andrew Wilson, nel suo lavoro sul conflitto in Donbas intitolato Explaining civil conflict, perhaps, but not civil war, illustra come l’alienazione della regione dall’Ucraina, il sostrato anarchico e spesso criminale delle sue élite, così come la vicinanza geografica e culturale alla Russia, possono spiegare la lunga tradizione di tensioni sociali che hanno pervaso il Donbas fin dall’indipendenza dell’Ucraina dall’URSS nel 1991, ma non bastano a giustificare lo scoppio di una guerra civile.   


Dopotutto, almeno fino al 2014, le frizioni con Kyiv erano sempre rimaste confinate all’arena politica e non erano mai sfociate in violenze, né vi erano spinte particolari verso la secessione. Basti pensare che nel 1994, uno dei momenti di massima tensione tra il governo centrale e l’autorità regionale, i politici locali non avevano chiesto né l’indipendenza né tantomeno l’annessione alla Russia, ma solamente di veder riconosciuto il russo come lingua nazionale. Anche i risultati nelle elezioni del partito ‘Blocco Russo’ erano sempre stati deludenti. Nel 2009 aveva ottenuto il 2.9%, e nel 2012 meno dell’1%. Perfino dopo la cacciata di Yanukovich, uomo del Donbas fieramente filorusso, coloro che reclamavano la separazione dall’Ucraina erano rimasti una minoranza. Un sondaggio del febbraio 2014, infatti, rilevò che solo il 33% dei votanti del Donetsk e il 24% nel Luhansk era favorevole all’idea di unirsi alla Russia.

 

Perfino il tema identitario non riesce a giustificare appieno il tragico corso degli eventi. La storia dell’Ucraina, fatta di divisioni politiche, dominazioni straniere e afflussi di persone da molte regioni dell’Europa orientale, ha influito profondamente nel determinare i confini, assai sfumati, delle identità etniche del Paese. I sondaggi dimostrano che il 56% della popolazione si riconosce come “Ucraino”, l’11 % come “Russo” e il 27% come “sia Ucraino che Russo”. L’assunto secondo il quale chi parla ucraino è da considerarsi ucraino e chi parla russo è da considerarsi russo non trova un riscontro preciso nella realtà. Infatti, di quel 27% che si identifica come “sia Ucraino che Russo”, che in Donbas rappresenta il 51% della popolazione, il 41% è ucrainofono, il 44% russofono e il 14% utilizza entrambe le lingue senza differenza. Dunque, la società non si divide tra nazionalisti di una o dell’altra parte. Anzi, la maggioranza non appartiene né all’uno né all’altro gruppo.

 

Come spiegare dunque la guerra civile esplosa nel 2014?

È l’inquilino di Shenkurskiy Proyezd, civico 8B, appartamento 136, in un’intervista al giornale ‘Zavrta’, a rispondere a questa domanda: “Ho premuto io il grilletto della guerra. Mi prendo la piena responsabilità di ciò che sta accadendo laggiù”.


La storia di Igor "Strelkov" Girkin


Nato a Mosca nel 1970, Igor Girkin, soprannominato “Strelkov” ovvero “tiratore”, aveva passato una vita intera nei servizi di sicurezza sovietici prima e della Federazione Russa poi. Negli anni ‘90 aveva combattuto in Transnistria al fianco delle forze filorusse. Vi sono poi sue tracce in Bosnia, dove pare abbia avuto un ruolo nell’eccidio di Visegrad dove, tra la primavera e l’estate del 1992, più di tremila bosniaci musulmani furono massacrati. Riapparve poi in Dagestan in non meglio definite ‘operazioni antiterrorismo’, ed è molto probabile che sia lo stesso “Strelkov” che, durante la Seconda Guerra Cecena, si era reso responsabile dei rapimenti e delle sparizioni di persone sospettate di essere vicine alle forze ribelli.


Nel febbraio del 2014 non è in Crimea in villeggiatura, bensì per eseguire gli ordini che arrivano direttamente dal Ministero della Difesa russo: capeggiare i commando incaricati di prendere il controllo della penisola.

 

 

A metà aprile 2014 prende il controllo della città di Sloviansk e impone un governo di ferro sulla popolazione. Anche qui, come in passato, Girkin si macchia di numerosi crimini, tra cui fucilazioni sommarie, imprigionamenti e assassini extra-giudiziali. A fare particolarmente clamore è la morte di Volodomyr Rybak, un politico locale che viene sequestrato e il cui cadavere viene ritrovato, qualche settimana dopo, sventrato e con il cranio sfondato.

 

Alla fine di aprile viene nominato Comandante Supremo della neonata Repubblica Popolare di Donetsk. Col volgere dell’estate, però, la situazione sul campo inizia a peggiorare. A luglio, una decisa offensiva ucraina sfonda le difese di Sloviansk e Girkin riesce a malapena a condurre una ritirata ordinata, ripiegando su Donetsk. Sempre in quei giorni, un missile terra-aria sparato dalle forze separatiste colpisce il volo Malaysian Airlines MH17, decollato da Amsterdam, causandone l’abbattimento e la conseguente morte di tutte le 298 persone a bordo. Il 17 Novembre 2022, il tribunale olandese incaricato di indagare sull’evento dichiara Girkin colpevole. Il suo commento è: “Sono un militare e non accetterò che un tribunale civile di un paese straniero abbia l'autorità di condannare una persona che ha preso parte alla guerra civile di qualcun altro”.

 

Dunque, mentre la lista di crimini legata ad Igor Girkin si allunga, la sua esperienza da comandante in capo delle forze separatiste si avvicina invece alla conclusione. Gli ucraini avanzano in quasi tutto il Donbas, e le forze ribelli non riescono a contenere l’esercito di Kyiv, più numeroso e meglio equipaggiato. Per far fronte a questa situazione, dunque, ad agosto decine di migliaia di truppe regolari russe iniziano ad affluire in Donbas. Insieme a loro, entrano in Ucraina carri armati, cannoni, mortai e missili in quantità senza precedenti. A seguito di questo afflusso di forze, l’offensiva ucraina si ferma.


Poche settimane dopo, Girkin torna in Russia. Il suo ritiro dal Donbas è avvolto dal mistero. Le insistenti voci di un suo ferimento in combattimento lasciano pian piano spazio ad una nuova versione: l’ordine di tornare in patria è arrivato direttamente da Mosca. È Girkin stesso, qualche mese più tardi, a raccontare di aver ricevuto l’ordine e “in quanto soldato, di aver obbedito”.

 

E così, Igor Vsvevolodovich Girkin ha fatto quello che aveva fatto per tutta la sua vita: ha servito il suo Paese, ha combattuto e ha obbedito. Tuttavia, questa volta è diverso: egli ha la netta sensazione che il lavoro in Donbas, iniziato da lui e dai suoi, sia stato lasciato a metà. Andrebbe annesso come la Crimea, sostiene Girkin. Invece la guerra si trascina per mesi e mesi tra scambi di artiglieria e assalti infruttuosi. Il suo ruolo nella “Primavera Russa”, come viene chiamata la ribellione in Donbas negli ambienti ultranazionalisti, non è però passato inosservato e ben presto viene invitato in televisione. Qui, in sale moderne, piene di schermi che mostrano grafici esplicativi della potenza militare russa e di personaggi improbabili che auspicano il lancio dell’atomica su Londra e Parigi, si unisce al coro di quanti sostengono una politica estera ancor più aggressiva. L’invasione su larga scala dell’Ucraina del 2022 trova dunque in Girkin un pieno sostenitore.


Tuttavia, quando l’esercito russo, perduto l’effetto sorpresa, comincia a subire pesanti perdite e a indietreggiare, Girkin si scaglia contro i comandanti, a suo dire incapaci e poco intraprendenti e invoca a gran voce la mobilitazione totale. Freme, Igor Girkin, costretto a osservare le difficoltà che affronta il suo Paese nel combattere una guerra che lui, più di tutti, ha contribuito a far scoppiare. La rabbia lo pervade, e la rabbia è un sentimento potente. Come possono le élite che siedono nei grandi palazzi del potere rovinare tutto con la loro incapacità? Come si può accettare che i droni ucraini colpiscano il territorio russo? Come si può accettare che i prigionieri nazionalisti ucraini del Battaglione Azov vengano liberati? Come si possono accettare i fallimenti sul campo e le enormi perdite subite? Come possono impedirgli di unirsi nuovamente alla lotta? Dopo tutto quello che ha fatto per il suo Paese…

 

La sua voce è scomoda a molti, specialmente al Cremlino. Tuttavia, rispetto ad altri critici che vengono rapidamente ridotti al silenzio, Girkin è protetto dalla sua fama e dal suo passato. Egli si fa portavoce degli ultranazionalisti e degli imperialisti degli ambienti militari, laddove la rabbia è un sentimento potente e comune. Girkin, addentro a questo mondo, lo percepisce. E così, nell’aprile del 2023, insieme ad altri due nazionalisti russi, Pavel Gubarev, ex membro del gruppo paramilitare neonazista Russian National Unity, e Vladimir Alexandrovich Kucherenko, attivista nostalgico dell’URSS soprannominato “Kalashnikov”, fonda il Club of Angry Patriots. La linea di questo movimento è chiara: il governo deve adottare misure estreme per vincere la guerra.

 

Pian piano, il gruppo comincia a raccogliere consensi sempre maggiori e Girkin fa una cosa che mai aveva fatto prima. Infatti, sebbene avesse proposto di lanciare una bomba atomica sull’Ucraina e avesse sostenuto la necessità di far fucilare il Ministro della Difesa Shoighu, mai aveva osato criticare direttamente Vladimir Putin. Invece, nell’estate del 2023, si scaglia anche contro il Presidente, accusandolo di essere debole, poco capace e mediocre. Qualche giorno dopo, Igor Girkin viene arrestato.

 

Tuttavia, non è per aver criticato l’intoccabile Putin che Girkin finisce in carcere. Il Cremlino teme le voci dei nazionalisti critici della guerra, sia per il seguito che molti di essi hanno, sia perché la guerra sta andando male veramente. Quella che doveva essere una operazione lampo si sta trasformando in una guerra di trincea, in cui a fronte di esigui guadagni territoriali le perdite sono immense. La propaganda ufficiale sbandiera l’invincibilità dell’esercito e ingigantisce piccole vittorie, ma i racconti della vera situazione al fronte cominciano ad essere sempre più numerosi. E dagli ambienti affollati dei partiti ultranazionalisti interni all’esercito e ai servizi di sicurezza, dei gruppi di veterani, degli imperialisti e dei nostalgici dell’Unione Sovietica si leva un pericoloso coro di malcontento.

 

Girkin ne diviene il portavoce e per questo diviene anche il capro espiatorio. Il suo arresto è un messaggio chiaro a coloro che criticano il regime: nessuno, neanche chi si è costruito fama e seguito servendo il Paese, è intoccabile. Nemmeno Igor Girkin.

  

 In un paese in cui i talk show parlano di bombardamenti atomici come da altre parti si parla del maltempo, dove alti ufficiali dell’esercito si fanno fotografare con indosso divise delle SS, e dove ai bambini viene insegnato a marciare e ad imbracciare un fucile già alle scuole elementari, l’accusa rivolta a Girkin assume un tono tragicomico: “estremismo”. La condanna è già scritta: quattro anni di prigione. Il commento di Girkin emblematico: “Io servo la Patria”.




Bibliografia


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