di Nicola Gentile.
Nella storia recente di Russia e Stati Uniti c’è stato un momento di grandi speranze (High Hopes) per il futuro delle relazioni tra le due ex superpotenze. Tra il 1992 e il 1995 la cooperazione tra i due paesi era tale da far pensare che ci si potessero lasciare alle spalle i decenni del confronto bipolare. Al centro dell’attenzione vi erano soprattutto la cooperazione militare, la limitazione degli armamenti e il disarmo nucleare. Un tale scenario non può che stridere con la situazione odierna, in cui Putin e Biden sono ai ferri corti da più di due anni a causa della guerra in Ucraina, risultato di uno scontro latente che si trascina proprio dagli anni ’90.
Per comprendere le dinamiche di 30 anni fa bisogna considerare che la neonata Federazione Russa, erede dell’Unione sovietica scioltasi nel 1991, era un paese sull’orlo del collasso economico, con un tenore di vita per i suoi cittadini ai minimi storici. Il presidente della Federazione Boris Él’cin, già presidente dell’ex Repubblica Sovietica russa dal giugno dello stesso anno, aveva inaugurato alcune riforme economiche e politiche che però faticavano a dare risultati concreti, alimentando così le critiche interne (Benvenuti, 2010: 56). L’intensa e incoraggiante attività diplomatica con gli Stati Uniti era in parte proprio frutto della necessità di ricevere sostegno finanziario. È comunque molto probabile che parte dell’élite russa che gravitava attorno a Él’cin fosse favorevole all’occidentalizzazione, una politica che si esprimeva principalmente attraverso l’introduzione del consumismo capitalista e il dialogo su tematiche securitarie.
Il clima distensivo inaugurato dalla fine della guerra fredda, dallo scioglimento del Patto di Varsavia e dalla firma del Trattato START I sulla limitazione degli armamenti, era proseguito per tutto il resto dell’amministrazione di George W. Bush sr (Varsori 2022: 44). L’ultimo atto del presidente uscente era stata la firma del Trattato START II nel gennaio 1993 a Mosca, a riconfermare le intenzioni di entrambi i paesi di proseguire sulla strada del disarmo e della riduzione delle testate nucleari.
Ricadde poi sul suo successore, il presidente democratico Bill Clinton, l’arduo compito di gestire l’eredità della guerra fredda. Al neo-presidente toccava mantenersi in equilibrio tra l’opportunità storica di estendere la garanzia dell’art 5 del Patto Atlantico ai paesi dell’Est Europea e l'occasione altrettanto importante di ridurre drasticamente le armi nucleari a disposizione del suo paese e della Russia.
Smantellamento di un sito ICBM in Ucraina
Gli Inizi
Sin dall’inizio del suo mandato il disarmo nucleare figurava tra le priorità di Clinton (Sarotte, 2021: 155). Tra le ragioni per questa necessità vi era quella di porre sotto controllo l’arsenale nucleare sovietico sparpagliato per stati ora indipendenti: Ucraina, Kazakistan e Bielorussia. La questione ucraina risultava particolarmente gravosa, dato che il presidente ucraino Leonid Kravčuk non sembrava intenzionato ad implementare l’accordo per la consegna del materiale nucleare bellico alla Russia (Sarotte, 2021:158).
Ad ogni modo, già al Summit di Vancouver nell’aprile 1993, uno dei primi grandi appuntamenti vis a vis con El’cin, Clinton ebbe modo di portare avanti la propria agenda internazionale in questo senso. In preparazione al Summit, il presidente statunitense ricevette alcune raccomandazioni da Anthony Lake, adviser del National Security Council. Lake raccomandò Clinton di premere per l’implementazione dell’accordo START I e la ratifica dello START II oltre a proporre un approfondimento della cooperazione su sicurezza e difesa.
Altre indicazioni giunsero dal Segretario alla Difesa Les Aspin che specificò di proporre a El’cin incontri di alto livello tra funzionari del ministero della difesa e ufficiali di entrambi i paesi ed esercitazioni di peacekeeping congiunte. Queste iniziative divennero realtà già l’anno seguente, quando si tennero esercitazioni congiunte in Russia denominate Peacekeeper 94 , poi ripetute l’anno successivo negli USA.
Dai resoconti delle conversazioni al Summit traspariva una certa serenità tra gli interlocutori americani e russi, a differenza e della circospezione che aveva dominato ogni accenno di dialogo fino a pochi anni prima. Lo stesso rapporto personale tra Bill (Clinton) e Boris (El’cin) ebbe modo di nascere proprio lì. Il presidente americano fu attento a trattare da pari il leader russo, parecchio criticato in patria e additato come responsabile della distruzione dell’eredità della superpotenza sovietica. Per questo motivo era importante che trasparisse l’immagine di un leader solido e rispettato all’estero.
Il presidente russo in visita a Washington
La diplomazia "personale" e l'espansione della NATO
Era chiara da parte di Clinton la volontà di offrire supporto al leader russo, visto come l’unica speranza per la democratizzazione della Russia. Questo sostegno si concretizzò soprattutto nei momenti più difficili per El’cin, come ad esempio la crisi costituzionale del 1993, conclusasi con il tristemente noto bombardamento del Parlamento russo in ottobre. Già in aprile il presidente statunitense aveva chiamato la sua controparte russa per congratularsi per la vittoria nel referendum che aveva sottoposto al giudizio popolare il suo operato.
Se nei primi mesi dell’amministrazione Clinton l’atmosfera poteva apparire come votata ad un certo ottimismo, bisognava pur sempre fare i conti con una serie di questioni che rischiavano di mandare all’aria ogni cosa. L’elefante nella stanza era chiaramente il tema dell’espansione della NATO.
L’espansione della NATO era una questione assai spinosa che gli addetti alla politica estera statunitense avevano già avuto modo di affrontare durante il processo di riunificazione tedesco. Una Germania unita avrebbe comportato in sostanza che truppe NATO sarebbero state stanziate oltre la cortina di ferro, causando non poca preoccupazione da parte di Mihail Gorbačev, allora al vertice dell’URSS. Affinché i sovietici acconsentissero era stato necessario promettere loro corposi finanziamenti e una vaga assicurazione sul fatto che NATO non si sarebbe spostata “di un centimetro” verso est. (Sarotte, 2021:144).
Il summit di Praga nel 1994 con i presidenti di Slovacchia, Polonia, USA, Ungheria e Repubblica Ceca
Per Clinton la questione della NATO continuava ad essere centrale dato l’intensificarsi delle richieste di accesso da parte dei paesi del gruppo di Visegrad. La popolarità negli USA di uomini politici come Lech Wałęsa e Václav Havel, presidenti rispettivamente di Polonia e Repubblica Ceca, stava contribuendo parecchio alla causa di questi paesi (Marten, 2017: 9).
Rispetto a questo tema Clinton rimase cauto e non si espresse esplicitamente almeno fino al 1994, anche perché in balìa delle diverse opinioni degli esperti del National Security Council e del Dipartimento di Stato. Alcuni funzionari nordamericani, come ad esempio il Vice-Segretario di Stato Strobe Talbott, offrire la possibilità di diventare membri dell’Alleanza Atlantica doveva diventare un incentivo per i potenziali membri a rafforzare lo stato di diritto e le istituzioni democratiche (MccGwire, 1998: 24).
Altri invece si esprimevano contro una politica di espansione ad est, che a lungo termine non avrebbe fatto altro che generare risentimento russo nei confronti dell’Occidente. Tra i sostenitori di un approccio più cauto vi era William Perry, vice Segretario alla Difesa (Segretario dal febbraio 1994) impegnato nel promuovere la cooperazione militare e il disarmo nucleare, motivo per il quale era attento a non spaventare i partner russi (Sarotte, 2021:174).
Non a caso Perry accolse a braccia aperte la proposta della Partnership for Peace (PfP), ideata dal Generale statunitense John Shalikashvili e da Aspin. Il progetto nasceva dall’idea di legare paesi ex-nemici in un sistema di cooperazione militare che non prevedesse alcuna garanzia di sicurezza. Si creava così un legame debole che accontentava i paesi che desideravano entrare nella NATO, ma che non creava una nuova cortina di ferro che isolasse la Russia.
John ShalikashvilI, Comandante Supremo NATO 1992-1993
L’invito venne esteso anche alla Russia che si unì al progetto nel ’94. L’idea piacque molto a El’cin, tanto che pensava potesse servire per “far scomparire la tensione in Russia riguardo all’Est Europa e alle sue aspirazioni verso la NATO” (Sarotte, 2021: 178). In più occasioni egli arrivò addirittura a parlare apertamente della possibilità per la Russia di unirsi alla NATO. A fare da contraltare all’entusiasmo di El’cin ci pensava il Ministro degli Esteri della Federazione Russa Andrey Kozyrev, il quale era parecchio sospettoso rispetto alla PfP, che vedeva come una “sala d’attesa” che precedeva lo status di membro a tutti gli effetti e una maschera rispetto alle vere intenzioni statunitensi.
I sospetti di Kozyrev trovarono conferma alla seduta del Consiglio Atlantico del gennaio 1994, da cui emerse una nuova prospettiva per i paesi dell’Europa Centro Orientale. Clinton infatti annunciò che, rispetto al loro ingresso nella NATO, non si trattava più di decidere se sarebbero entrati, ma come e quando. A far propendere l’amministrazione Clinton verso la decisione di prospettare la membership effettiva dopo la PfP furono le insistenti pressioni di alcuni membri del Congresso e i paesi dell’ex Patto di Varsavia, insoddisfatti della Partnership (Sarotte, 2021:183).
Questa decisione verrà poi formalizzata nel dicembre 1994 durante un Consiglio Atlantico in cui i rappresentanti dei paesi membri si esprimevano a favore di un “allargamento NATO che raggiunga i paesi democratici ad Est”. Il comunicato finale, che intendeva chiaramente aprire all’adesione esclusiva dei paesi del Patto di Varsavia, fece infuriare Mosca. Solo pochi mese prima, Clinton infatti aveva assicurato El’cin che il progetto di espansione della NATO sarebbe continuato ma seguendo condizioni specifiche: senza sorprese, senza fretta e senza escludere nessun paese (Sarotte, 2021: 197, 201). Dal punto di vista russo nessuna delle tre condizioni era stato rispettata, alimentando la percezione di essere stati traditi dagli Stati Uniti e dall’occidente in generale. Già nella primavera dello stesso anno i russi si erano particolarmente allarmati per l’attività dell’aviazione statunitense in Bosnia nel contesto dell’operazione Deny Flight, che già da un anno aveva imposto una no-fly zone sui cieli bosniaci.
Il declino delle relazioni
A determinare il congelamento degli sforzi collaborativi intervennero altri fattori cruciali: il summit di Budapest e la guerra in Cecenia. Pochi giorni dopo il Consiglio Atlantico si tenne il Summit di Budapest, il cui scopo era rinominare la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE) in Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) nel tentativo di dare una simbolica vittoria alla Russia che da tempo spingeva per rendere la CSCE la nuova struttura securitaria paneuropea. Il summit fu anche l’occasione per firmare il Memorandum di Budapest tra USA, Regno Unito, Russia e Ucraina. L’accordo riguardava le garanzie sulla sovranità ucraina e la consegna delle armi nucleari alla Russia, ponendo fine alla questione nucleare ucraina (Sarotte, 2019: 33).
Nonostante la firma sul memorandum il summit può tranquillamente essere considerato come l’inizio della fine del periodo di più intensa e sincera collaborazione tra Russia e Stati Uniti. A Budapest Clinton ebbe modo di riaffermare ciò che era stato il risultato del Consiglio Atlantico, assestando un altra duro colpo a Kozyrev e El’cin, sempre più in difficoltà a sostenere in patria che l’espansione della NATO non avrebbe danneggiato gli interessi militari russi.
La devastazione di Grozny
Proprio negli stessi giorni El’cin avviò le operazioni militari in Cecenia, una regione del Caucaso settentrionale in cui era in corso una guerra civile tra separatisti e lealisti russi. L’intervento russo in Cecenia alienò non poco il pubblico e le cancellerie occidentali rispetto alla figura di Yeltsin. Dal canto suo il presidente russo finì sempre più per affidarsi a leader militari e del KGB, particolarmente anti-occidentali.
Inoltre tra la fine del ’94 e l’inizio del ’95 l’amministrazione Clinton prese la decisione di concentrarsi maggiormente sull’area dell’Europa centro-orientale a scapito della Russia e dell’Ucraina, dato che la questione nucleare rispetto a quest’ultima era pressoché risolta (Sarotte, 2021: 207). Questo dimostra che le priorità erano ormai cambiate rispetto a pochi mesi prima e ci si avviava inconsapevolmente verso la fine di questa “luna di miele” diplomatica.
Analizzando agli intrecci diplomatici dei primi anni ’90 è evidente che in essi risiedano i presupposti per l’inasprimento del confronto Russia-USA. Negli anni successivi ci sono stati comunque alcune eccezioni a questo graduale peggioramento, basti pensare all’atto fondativo Russia-NATO del 1997 e alla solidarietà mostrata da Putin all’indomani del 11 settembre. Ad ogni modo, soprattutto dall’intervento NATO in Kosovo del 1999 in poi, il divario di vedute tra i due paesi si è allargato inesorabilmente fino ad arrivare alla situazione odierna.
Bibliografia
Benvenuti, F. (2010) “La Russia dopo l’URSS: dal 1985 ad oggi”, Roma, Carrocci
Marten K. (2017), “The growth of NATO-Russia Tensions”, New York, Council on Foreign Relations
McCgwire M. (1998) “NATO Expansion: A Policy Error of Historic Importance”, Cambridge, Cambridge University Press
Sarotte M. E. (2021), “Not one inch. America, Russia and the making of the post cold war stalemate”, New Haven, Yale University Press
Sarotte M. E. (2019), “How to Enlarge NATO: The Debate inside the Clinton Administration, 1993–95,” International Security, Vol. 44, No. 1
Varsori A. (2022), “Le relazioni internazionali dopo la guerra fredda”, Bologna, Il Mulino
Sitografia (National Security Archive e NATO Archive)
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