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Il diritto internazionale è morto?

  • Writer: Koinè Journal
    Koinè Journal
  • 18 hours ago
  • 5 min read

di Tommaso Di Ruzza.


Negli ultimi anni, un giusto e giustificatissimo interrogativo ha iniziato a circolare nei corridoi delle università, tra i banchi dei diplomatici e negli editoriali più inquieti delle principali testate internazionali: il diritto internazionale è morto?

L’invasione russa dell’Ucraina, la tragedia in corso a Gaza, il ritorno dei nazionalismi più accentuati con Donald Trump nuovamente protagonista sulla scena americana e la corsa europea al riarmo sembrano raccontare tutti la stessa storia: le regole comuni che avrebbero dovuto garantire un ordine globale giusto e pacifico sono oggi ignorate, umiliate, svuotate di ogni forza e di ogni significato.

 

Ma davvero siamo alla fine del diritto internazionale? O, piuttosto, stiamo assistendo alla sua fase più dura di transizione? Ad una metamorfosi totalizzante e chissà.. magari anche rigenerante?

 

La crisi ucraina e la ridotta incisività della Carta delle Nazioni Unite

 

Il 24 febbraio 2022, con l’inizio dell’aggressione militare da parte della Russia contro l’Ucraina, è stato violato uno dei principi fondanti del diritto internazionale moderno: il divieto dell’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di uno Stato (art. 2, par. 4 della Carta ONU). È stato cioè commesso quello che la dottrina internazionalistica generale chiama “CRIMINE SUPREMO”.

 

Non si è trattato di un caso isolato o dalle caratteristiche ambigue: la violazione è stata ovvia e netta, riconosciuta come tale dalla larghissima maggioranza della comunità internazionale. Eppure, la risposta, sebbene forte sul piano delle sanzioni economiche e del sostegno militare all’Ucraina, ha rivelato tutta l’impotenza del diritto internazionale cosiddetto “duro” (hard law): d’altronde nessuna forza coercitiva sotto mandato ONU è intervenuta, e nessuna riforma del Consiglio di Sicurezza – bloccato dal veto russo – è stata dunque possibile.

Il diritto, da solo, non ha perciò fermato i carri armati.

Questa fattualità ha risvegliato una verità da tempo sepolta: il diritto internazionale, nella sua forma attuale, dipende dalla volontà politica degli Stati. E quando una grande potenza decide di ignorarlo, le istituzioni che avrebbero dovuto difenderlo mostrano la loro irrilevanza tristemente e platealmente patologica.

 

Gaza e il pericolo per il diritto internazionale dei diritti umani

 

Il conflitto israelo-palestinese, riesploso con ferocia nell’ottobre 2023 dopo gli attacchi terroristici di Hamas e l'orribile reazione israeliana su Gaza, ha ulteriormente scolpito lo scenario di profonda crisi.

 

I princìpi di diritto internazionale dei diritti umani – la distinzione tra civili e combattenti, la proporzionalità degli attacchi, il rispetto dei diritti fondamentali – sembrano in molti casi messi da parte come mere dichiarazioni retoriche, se non addirittura moralmente ornamentali. Le accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità proliferano di giorno in giorno, ma gli strumenti giuridici internazionali per fermare la spirale della violenza si mostrano insufficienti più nella loro inesistente incisività che nel loro numero.

 

Sembra di assistere ad un girone drammaticamente ripetitivo, tragico nella sua fallacia. La Corte Penale Internazionale e la Corte Internazionale di Giustizia aprono delle inchieste. Le Nazioni Unite condannano. Gli attivisti e le voci sociali dei popoli invocano giustizia e chiedono chiarezza. Ma intanto la guerra continua, e la sproporzione di potere tra Stati e istituzioni internazionali appare sempre più attuale.

 

In questo scenario, i diritti umani – che avrebbero dovuto rappresentare il cuore pulsante dell’ordine post secondo conflitto mondiale – sembrano sempre più un linguaggio di denuncia formale, non più una garanzia concreta.

 

Trump, Putin e il ritorno della politica del braccio di ferro

 

Nel quadro di questa crisi del diritto internazionale si inserisce anche il ritorno del tycoon Donald Trump sulla scena politica americana.

Con la sua retorica isolazionista, autarchica, di “America First”, Trump ha apertamente indebolito le istituzioni sovranazionali, disconoscendo il valore di alleanze non solo militari storiche, (NATO inclusa), e aberrando logiche di cooperazione vincolata al diritto e al classico equilibrio fra stati.

 

La sua rielezione nel 2024, ha sferrato un colpo devastante alla già fragile architettura globale: Trump non ha mai nascosto di vedere il diritto internazionale come un ostacolo, più inutile che credibile, e non dunque come un sentiero di doverosa percorrenza.

 

Parallelamente, Vladimir Putin si è fatto interprete di un modello di autoritarismo marcato, in cui il diritto internazionale, di cui lui è cultore peraltro, è semplicemente irrilevante se messo in rapporto all’interesse nazionale. L’uso della forza, la mancanza di libertà di stampa, il rifiuto di obblighi internazionali multilaterali sono strumenti del tutto legittimi in questa logica hobbesiana.

 

In questo senso, Trump e Putin – pur su piani ideologici diversi, ma forse non troppo,– incarnano la stessa visione: un mondo in cui il diritto internazionale torna ad essere una fittizia animazione d’apparenza, un velo leggero utile soltanto a celare l’utilizzo del rigido pugno di ferro.

 

Il riarmo europeo: autodifesa o abbandono clamoroso del diritto e del perseguimento degli equilibri?

 

Di fronte a questo scenario, l’Europa ha scelto una strada drammaticamente chiara: quella del riarmo più sfrenato. Germania, Francia, Polonia, Italia e non solo: tutti i grandi Paesi stanno aumentando in modo significativo i bilanci della difesa e dell’industria delle armi. Si parla apertamente di costruire una “autonomia strategica europea”, e ovviamente della chimera dell’esercito comune europeo, anche a costo di militarizzare sempre più la politica estera.

È una risposta incomprensibile – la guerra in Ucraina ha dimostrato che la pace dovrebbe essere garantita solo dai trattati – ed è infatti una scelta che rischia di spostare l’asse dalla forza del diritto al diritto della forza.

 

Il grande sogno utopico europeo – che aveva visto nell’integrazione, nella diplomazia e nel diritto le fondamenta della sicurezza – rischia di trasformarsi, neanche troppo lentamente, in una comunità armata, sempre meno fiduciosa nelle regole internazionali.

 

I diritti fondamentali : ultima barriera di pace?

 

Eppure, nonostante tutto, il diritto internazionale non è davvero morto.


Sebbene deboli ed inascoltate, le voci che si levano in difesa dei diritti umani continuano a esercitare una pressione morale e politica comunque presente. Le condanne pubbliche, le sentenze delle corti internazionali, i rapporti delle organizzazioni internazionali indipendenti tengono in vita una speranza di possibile ritrovata responsabilità.

Il concetto stesso del pericolo di crimine contro l’umanità, di genocidio, di diritto dei popoli all’autodeterminazione, è entrato ormai nel lessico globale in modo irreversibile.

 

Anche i leader più cinici devono confrontarsi, almeno formalmente, con questo linguaggio. Nessuno, tranne le eccezioni già fatte, osa più rivendicare apertamente ed esplicitamente  il diritto del più forte come unica fonte di legittimità.

Il diritto internazionale dei diritti umani – per quanto violato, tradito, strumentalizzato – continua a sopravvivere, a volte come voce di coscienza, altre volte come terreno di battaglia.

 

Un diritto in cammino

 

Forse, allora, non stiamo assistendo alla morte del diritto internazionale, ma alla sua silenziosa metamorfosi.

La fine del dominio unipolare a stelle e strisce, il ritorno dei conflitti di potenza, il risveglio dei nazionalismi e dei sovranismi, l’esplosione delle crisi umanitarie richiedono un ripensamento profondo delle istituzioni e delle norme globali.

 

Il diritto internazionale dovrà diventare meno ingenuo, più sveglio, più capace di ancorarsi a meccanismi di rafforzamento efficaci. Dovrà accettare il pluralismo delle potenze, negoziare nuovi spazi di sovranità condivisa, ricostruire credibilità attraverso strumenti di responsabilità reale, non solo simbolica e simulata.

 

Il vero pericolo non è che il diritto internazionale muoia, ma che si trasformi in una liturgia vuota, come sembra che possa essere se non si inverte la rotta attuale: un rituale senza forza, recitato in un mondo che non crede più nella possibilità di un ordine condiviso.

La sfida, per le nostre future generazioni, è quindi salvare l’anima di quel diritto. Non lasciarlo cadere nell’oblio della storia, ma traghettarlo verso una nuova stagione di significato.

Perché, come ha sostenuto Georges Scelle, grande giurista internazionale del Novecento, “il diritto internazionale non è semplicemente ciò che gli Stati fanno, ma ciò che essi dovrebbero fare”.

 

Ed è in questo imperativo morale, più che nella pura forza, che si gioca il futuro del diritto tra le nazioni.

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