di Davide Cocetti.
Curiosa categoria, quella del putinismo. A differenza di molti altri –ismi che hanno drammaticamente segnato la Storia contemporanea, non indica un’ideologia o una dottrina politica ben precisa. Un rapido sguardo alla pagina Wikipedia “Putinism” – non esiste un corrispettivo italiano – può aiutare a chiarire meglio questa distinzione. Più che un’organica trattazione di un pensiero politico, troviamo un elenco puntato di azioni e provvedimenti intrapresi da Vladimir Putin. Solo una ristretta sottosezione viene dedicata alle teorie di alcuni studiosi sull’esistenza di un’ideologia putinista.
Ben diversa è la struttura della pagina Wikipedia “Stalinism” – e stavolta esiste anche il corrispettivo italiano. La teoria che sta dietro alle politiche intraprese da Josef Stalin risulta meglio definita, tanto da essere messa anche in relazione con altre correnti di pensiero interne alla dottrina marxista. In altre parole, ciò che cogliamo in “Stalinism” e fatichiamo a individuare in “Putinism” è il fil rouge ideologico che permette di riordinare entro una cornice logica coerente le mosse dell’attuale leader russo. L’importanza di trovare il bandolo di questa matassa è fin troppo evidente. Comprendere la logica dietro alle azioni di Putin sarebbe fondamentale sia per riuscire ad anticiparle, sia per trovare posizioni di mediazione condivise.
L’État, c’est moi. La Russia di Putin
Non è facile descrivere in poche parole il contesto entro cui Putin opera e la natura del regime da lui presieduto dal 2000 ad oggi. L’autoritarismo nel XXI secolo è diventato molto più dinamico, mutevole e sfumato. A tratti si ha l’impressione che categorie di pensiero novecentesche come “dittatura” e “totalitarismo” risultino già obsolete per descrivere le realtà autocratiche del giorno d’oggi. Certamente Putin non dispone del potere assoluto di uno Zar, ma nemmeno di uno Stato totalitario di stampo stalinista. D’altro canto, però, l’esistenza di strutture e pratiche democratiche in Russia non può ingannarci: il potere decisionale di Putin è enorme, anche se non assoluto.
Per descrivere questa forma ibrida di regime, studiosi come Matthew Blackburn e Bo Petersson si servono della categoria di autoritarismo elettorale. La legittimazione del leader, in questo tipo di sistema, deriva dal consenso popolare. Il controllo del leader è tanto più saldo, quanto più riesce a limare il rischio di non godere di questo consenso. In che modo? Depotenziando gli organi democratici; stroncando sul nascere a ogni possibile divergenza o alternativa politica; coagulando gli interessi economici intorno a sé; adottando misure e provvedimenti capaci di riscuotere grande approvazione popolare.
Il sistema politico oggi esistente in Russia non è stato inventato da Putin, o perlomeno non del tutto. Negli anni Novanta il suo predecessore Boris El’cin, ricostruendo lo Stato russo dalle ceneri dell’Unione Sovietica, preparò il terreno per un super-presidenzialismo. La Costituzione del 1993 risultò inadatta sin dalla sua promulgazione nell’offrire solide basi democratiche al Paese. La Duma, ovvero il Parlamento russo, apparve fin dagli inizi poco più che un semplice organo di consultazione, anche per via della debolezza del sistema partitico.
La struttura politica della Russia cela almeno parzialmente il reale blocco di interessi e di poteri che muove il Paese al suo interno e nelle relazioni internazionali. Parliamo ovviamente degli oligarchi. Un ceto ampiamente diversificato al suo interno, ma i cui membri sono accomunati dalla gestione personalistica di ogni aspetto dell’economia, dell’amministrazione e della comunicazione. La deregolamentata transizione dal socialismo al libero mercato permise a questo ristretto gruppo di fare le proprie fortune sulla liquidazione dei beni appartenenti al vecchio Stato sovietico e sulla privatizzazione delle aziende.
Gli oligarchi, dunque, non nascono con Putin. Si può dire piuttosto il contrario: grazie al supporto economico e mediatico di Boris Berezovskij e di altri miliardari, Putin tra il 1999 e il 2000 passò da essere un signor nessuno a vincere le elezioni presidenziali senza nemmeno passare dal ballottaggio. Sarebbe però un errore credere che Putin sia solamente uno strumento nelle mani dei potentati russi. Lo stesso Berezovskij, pochi mesi dopo le elezioni, si inimicò il nuovo presidente e fu per questo costretto a lasciare in fretta e furia la Russia. Semmai, Putin si è dimostrato più abile di El’cin nel coniugare i suoi interessi e quelli degli oligarchi. Ha permesso loro di radicarsi nell’economia e nei centri di potere, a condizione però di non essere intralciato nel perseguimento della propria agenda politica.
Questo rapporto ambivalente tra Putin e gli oligarchi ha spinto diversi studiosi a parlare di un sistema neopatrimoniale russo, basato sulle relazioni personali e sugli accordi informali. Il perno di questa struttura è rappresentato dagli introiti del gas e del petrolio. La liquidità che ne deriva consente di oliare l’intero meccanismo e di garantirne il funzionamento. In un sistema di questo tipo è difficile anche comprendere la reale estensione della corruzione, dal momento che gli affari e i legami privati tendono a combaciare con i rapporti istituzionali e di Stato.
I’m Mr. Putin, I solve problems. Immagine e retorica
Abbiamo evidenziato due definizioni utili per il regime putiniano. La prima, quella di autoritarismo elettorale, ci permette di definire la struttura politica della Russia contemporanea. La seconda, quella di sistema neopatrimoniale, ci aiuta a comprendere le dinamiche che animano tale struttura. In entrambi i casi, abbiamo evidenziato come Putin non abbia creato da zero questo impianto di istituzioni e di relazioni. Semmai, si è dimostrato più abile del suo predecessore El’cin e dei suoi odierni competitors nel sfruttarne le dinamiche.
La scaltrezza di Putin è una qualità spesso riconosciuta dagli studiosi, dai commentatori e spesso perfino dai suoi detrattori. Le spiccate doti di comprensione delle circostanze e di problem solving sono uno dei tratti più marcati dello stile di governo putiniano. Del resto, queste erano le capacità che gli erano richieste nel suo primo lavoro presso il KGB, l’agenzia di sicurezza dell’Unione Sovietica presso cui prestò servizio per più di quindici anni.
In un’intervista rilasciata nel 2013 al vicepresidente di “Associated Press” John Daniszewski, lo stesso Putin si definisce «un pragmatista con una prospettiva conservatrice». Ciò che più ci interessa di questo autoritratto, però, è che arriva in risposta a una domanda ben precisa di Daniszewski. La stessa che ci siamo posti noi all’inizio di questa analisi: qual è la filosofia politica di Vladimir Putin? Il presidente russo argomenta: «Prendo sempre in considerazione i fatti del presente e le lezioni del passato recente e remoto. Provo a proiettare questi eventi e queste esperienze in una prospettiva a medio-lungo termine».
Nessun determinismo ideologico, nessun grande disegno da perseguire. Putin dichiara di studiare le questioni del passato e di reagire agli avvenimenti del presente, cercando di trovare la migliore soluzione per il futuro. Non risulta difficile credergli. Negli oltre vent’anni di protagonismo politico, ha cambiato più e più volte posizione riguardo a parecchie questioni. Per esempio, a seconda del momento storico, delle contingenze e degli interlocutori con cui si è rapportato, si è dimostrato più o meno aperto nei confronti dell’Occidente. Oggi appare intenzionato a perseguire una retorica di scontro tra civiltà, descrivendo i valori occidentali come una minaccia all’identità russa. Ieri invocava «un’Europa unita da Lisbona a Vladivostok».Sarebbe sbagliato parlare di incoerenza. Semplicemente è mutato il contesto internazionale, si sono avvicendati protagonisti diversi che hanno mostrato attitudini diverse nei confronti della Russia putiniana.
Russia unita, Russia forte
Uno dei pochi elementi ricorrenti nella retorica e negli intenti di Putin è la volontà di costruire uno Stato forte e protagonista tanto in politica interna, quanto nelle relazioni internazionali. Spesso questo atteggiamento è stato ricondotto a posizioni centraliste e nazionaliste, se non ultranazionaliste e scioviniste. Putin stesso si dice animato dal patriottismo, ma non nei termini in cui saremmo portati a intenderlo se facessimo riferimento alle categorie di pensiero appena elencate. Nel 2020 il presidente russo ha dato una definizione ben precisa di patriottismo: «L’impegno di ognuno nello sviluppo e nel progresso del Paese».
Ben più utile per comprendere questa nozione risulta l’approccio pragmatico sopracitato. «Tenere in considerazione i fatti del presente e le lezioni del passato», per dirla con le parole di Putin. Partiamo dallo sguardo retrospettivo. La Storia ha insegnato che la Russia degli anni Novanta, attraversata da profonde spaccature sociali e da divisioni politiche, si è dimostrata incapace di garantire il benessere dei suoi cittadini e di tutelare gli interessi dello Stato sulla scena internazionale.
Putin ha imparato la lezione e oggi non ha alcuna intenzione di concedere la benché minima possibilità di fratture interne. Si è reso garante di quello Stato forte e vuole portare a termine la sua missione. E qui veniamo ai fatti del presente. Ogni elemento potenzialmente perturbatore suscita una reazione: viene immediatamente ricondotto all’ordine, represso, ridotto al silenzio. Viceversa, qualsiasi fattore unificante viene integrato ben volentieri nella retorica di regime.
Questo approccio richiede una certa flessibilità di fronte alle esigenze del momento, che un’ideologia monolitica difficilmente concederebbe. Facciamo un esempio per spiegare meglio. Il passato sovietico della Russia rappresenta un’eredità complessa da gestire (ne abbiamo già parlato qui). In particolare, la memoria dello stalinismo risulta controversa e potenzialmente divisiva. Come agisce dunque la retorica putiniana? Isolando gli elementi unificanti come la memoria della Grande guerra patriottica e della vittoria sul nazismo, che divengono oggetto di un vero e proprio culto. Rimuovendo o condannando i fattori potenzialmente divisivi, come le purghe e la repressione applicata da Stalin.
Una conclusione metodologica
Abbiamo visto quanto sia difficile identificare un significato specifico e omnicomprensivo di putinismo. L’unica filosofia politica che sembra animare la retorica e le pratiche del regime di Putin è tutto meno che un’ideologia. Pragmatismo, opportunismo, reazione ai problemi che emergono. Tutto ciò in nome di una Russia forte, unita. Difficile parlare di putinismo come di uno specifico pensiero politico. La categoria risulta ben più utile per indicare l’atteggiamento e le azioni del presidente russo e dei suoi fedelissimi.
Emerge anche un’altra conclusione, decisamente più rilevante – soprattutto nei giorni drammatici che stiamo vivendo. Abbiamo condotto un’intera analisi muovendoci sulle dichiarazioni di Putin. Le sue parole non sono da bollare aprioristicamente come menzogne di regime. Possono rivelare molto sull’approccio del leader russo, sui suoi intenti e sulle sue posizioni. Nessuno vuole fare l’apologia di un presidente autoritario, illiberale e bellicista, ma ridurlo semplicemente a “dittatore”, “criminale di guerra” o “animale” – sono solo alcune delle espressioni pronunciate dalla politica occidentale nell’ultimo mese – non sarà certo di aiuto al confronto e alla soluzione dei problemi. Citando l’ex premier Romano Prodi, «è facile parlare con San Francesco, ma a volte è più importante parlare con il lupo». In quest’analisi abbiamo provato, per quanto indirettamente, a parlare con il lupo, per capire la logica dietro alle sue azioni.
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