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Writer's pictureKoinè Journal

In Italia si MUORE di CARCERE


di Giulia Mezzabotta.


Il suicidio di una persona privata della libertà costituisce il fallimento più evidente del ruolo punitivo dello Stato

 

Il suicidio in ambito carcerario rappresenta un fenomeno di estrema complessità e gravità, che spesso riflette condizioni di profondo isolamento sociale, disagio psicologico e difficoltà di accesso a supporti adeguati. In numerose nazioni, l’incidenza dei suicidi nelle carceri supera di gran lunga quella riscontrabile nella popolazione libera, un dato che riflette un intreccio di cause riconducibili tanto a vulnerabilità personali quanto a condizioni ambientali oppressive.

 

Per quanto concerne il nostro Paese, la nostra Costituzione dedica ben due articoli fondamentali alla tutela della libertà personale: l’articolo 13, che al comma 4 stabilisce che persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà hanno il diritto di non subire alcun tipo di violenza fisica e morale, e l’articolo 27, il cui comma 3 dispone che le pene non possono consistere in trattamenti inumani o degradanti e che devono avere uno scopo rieducativo, ma la realtà attuale evidenzia una situazione caratterizzata da condizioni di vita inadeguate. Tali criticità includono la mancanza di strutture idonee, una grave carenza di operatori qualificati, l’assenza di programmi di risocializzazione efficaci, scarse opportunità formative e lavorative, e l’insufficienza di percorsi ad hoc capaci di rispondere alle esigenze specifiche dei singoli individui.

 

Analizzando la relazione tra il numero dei decessi e la media delle persone detenute nel corso dell’anno, l’Italia emerge come uno dei paesi con il più basso tasso di suicidi nella popolazione libera a livello europeo; tuttavia, all’interno degli istituti penitenziari, il suicidio rappresenta la principale causa di morte.


 

Dati recenti del Consiglio d’Europa collocano l’Italia ben al di sopra della media europea in termini di suicidi tra le persone private della libertà personale.  Nel 2021, il tasso di suicidi in carcere nel nostro Paese era pari a 10,6 casi ogni 10.000 persone detenute, mentre la media europea si attestava a 9,4 casi.

 

Un elemento di particolare rilievo è costituito dal periodo durante il quale si registra una maggiore propensione al suicidio. In effetti, l’inizio e la conclusione di un percorso detentivo rappresentano momenti di estrema criticità. Da fonti di stampa, tale tendenza è osservabile sia tra coloro in attesa di giudizio sia tra coloro prossimi al rilascio, indipendentemente dal fatto che abbiano una pena residua breve o siano in procinto di richiedere una misura alternativa alla detenzione.

P

er quanto concerne i periodi dell’anno con il maggior numero di suicidi, nel 2023 il picco è stato osservato a maggio, con 9 suicidi (uno ogni 3,4 giorni), mentre il 2024 si è aperto con un dato allarmante: ben 12 suicidi nel solo mese di gennaio, corrispondenti a uno ogni 2,6 giorni.

 

Anche le sezioni in cui si verificano tali episodi costituiscono un aspetto rilevante da considerare. In almeno 11 casi, le persone si trovavano in una cella di isolamento, per motivi disciplinari o sanitari. In almeno 3 casi, le persone si trovavano in un reparto psichiatrico e in ulteriori 3 casi nell’area sanitaria.

 

Tale dato appare strettamente connesso alle condizioni specifiche di ciascun detenuto: risultano maggiormente esposti al rischio coloro che soffrono di patologie psichiatriche, hanno un passato di tossicodipendenza o si trovano in situazione di senza fissa dimora.

 

Un valore da sempre riscontrato in alta misura tra i casi di suicidi è quello relativo alla diversa nazionalità. Disaggregando il tasso dei suicidi per nazionalità, infatti, emerge una maggiore incidenza tra i detenuti di origine straniera, con un tasso pari a 15 casi ogni 10.000 persone, rispetto ai 10,5 casi ogni 10.000 rilevati tra i detenuti italiani. Ciò è attribuibile al fatto che la percentuale di persone di origine straniera nelle carceri italiane rappresenta oggi circa il 31,3% della popolazione detenuta complessiva, risultando quindi associata a un’incidenza di suicidi significativamente superiore rispetto a quella riscontrata tra i detenuti di nazionalità italiana.

 

In merito all’età media dei detenuti che hanno deciso di togliersi la vita, questa si attesta sui 40 anni. Tra gli stranieri deceduti per suicidio nel 2024, che costituiscono il 57% del totale, prevalgono i giovani sotto i 35 anni. La fascia d’età più rappresentata è quella compresa tra i 30 e i 39 anni, seguita da quella tra i 40 e i 49 anni, poi da quella dei giovani tra i 20 e i 29 anni, dalla fascia tra i 50 e i 59 anni e infine da quella tra i 60 e i 69 anni.

 

Andando ad analizzare il genere, emerge che le donne rappresentano il 4,3% della popolazione detenuta complessiva, ma mostrano una frequenza significativamente maggiore di episodi di autolesionismo rispetto ai detenuti di sesso maschile. Tale disparità sembra radicarsi nel fatto che la maggior parte delle sezioni femminili è ospitata all'interno di istituti penitenziari prevalentemente maschili, dove agli uomini sono dedicate attenzioni più assidue e una più ampia gamma di attività.


Secondo le statistiche fornite dal Garante Nazionale (Antonelli 2023: 536), l’incidenza dei suicidi tra le donne era pari a zero nel 2019 e si è limitata a un singolo caso sia nel 2020 sia nel 2021. Tuttavia, nel 2022 tale tasso ha subito un’impennata, raggiungendo il valore di 2,2 suicidi ogni 1000 detenute, superando così quello riscontrato tra i detenuti di sesso maschile pari a 1,4.


Dai cinque casi di suicidi registrati nel 2022, si possono individuare alcuni fattori scatenanti comuni, quali la sofferenza psicologica, la tossicodipendenza, la solitudine, l’assenza di un adeguato supporto psicologico e la carenza di misure efficaci per la prevenzione del rischio suicidario.

 

Osservando le regioni italiane che, tra il 2023 e il 2024, hanno registrato il maggior numero di suicidi in carcere, emerge una correlazione con la più alta concentrazione di popolazione detenuta, suggerendo che la maggiore incidenza di suicidi rifletta la più elevata presenza di detenuti.

 

In dieci Istituti su tredici il livello di sovraffollamento supera la media nazionale che, stando al ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone, a fine marzo 2024 si attestava al 119,3%. Tra questi svettano Regina Coeli, Verona e Taranto, rispettivamente con un tasso di affollamento pari al 182%, al 173% e al 162%.


Il sovraffollamento non rappresenta solo una mera carenza di spazi, ma comporta altresì una significativa insufficienza di risorse, come può essere quella di personale. Tale condizione grava pesantemente sugli agenti di polizia penitenziaria, sugli educatori, sugli psicologi e sui direttori delle strutture, i quali, in assenza di adeguati finanziamenti e risorse umane, si vedono costretti a fronteggiare esigenze sempre crescenti.

 

Il tema del sovraffollamento è emerso in modo cruciale con la sentenza Torreggiani, divenuta definitiva il 27 maggio 2013, con cui l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a risarcire il signor Mino Torreggiani e altri sei individui, i quali avevano lamentato condizioni detentive al limite della dignità umana (Calderone 2015: 32).


La Corte europea, inoltre, ha emesso condanne all’Italia anche per altre violazioni, come nel caso degli abusi subiti da un detenuto nel 2000 presso il carcere di San Sebastiano di Sassari. A tal riguardo, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha richiamato l’attenzione sulle condizioni delle carceri italiane, formulando raccomandazioni, tra cui: migliorare il sistema penitenziario, introdurre il reato di tortura nel codice penale, incrementare le misure non detentive per coloro in attesa di giudizio e rivedere le procedure per attenuare l’arretrato creatosi. Tra le ulteriori raccomandazioni, figura l’obbligo di inviare i rapporti pendenti al Comitato contro la tortura e al Comitato per i diritti umani, nonché di attuare con celerità gli obblighi derivanti dal Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Viene altresì richiesta l’istituzione di un meccanismo di protezione nazionale indipendente ed efficace che abbia le risorse necessarie.

 

A rendere ancor più grave il drammatico bilancio dei suicidi contribuisce la profonda trasformazione strutturale che, nel corso degli anni, ha interessato la popolazione detenuta: essa si presenta oggi maggiormente frammentata in termini di coesione sociale e culturale, e maggiormente fragile da un punto di vista personale, tratti che hanno alimentato un crescente individualismo e un senso di solitudine diffuso e pervasivo.


È proprio tra i detenuti più vulnerabili e marginalizzati che si osserva una nuova modalità di comunicazione nei confronti dei detenenti: l’autolesionismo, che sostituisce sempre più la tradizionale rivendicazione dei diritti, divenendo un’ultima, residuale forma di reclamo e una richiesta di attenzione.

 

È, dunque, necessario sanare la tragica incidenza di suicidi che si verifica all'interno degli istituti penitenziari, innanzitutto cercando di arginare il senso di isolamento e marginalizzazione, specialmente per coloro che soffrono di problematiche psichiatriche e dipendenza. Questo obiettivo potrà essere raggiunto solo attraverso un impegno sostanziale volto a garantire l’accesso a opportunità lavorative, formative e culturali e, sul fronte del diritto all’affettività, una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno e un incremento delle occasioni di incontro tra detenuti e familiari.


Bisognerebbe, inoltre, dedicare maggior attenzione alla fase di inserimento dei cosiddetti nuovi giunti, consentendo loro un graduale ambientamento, magari all'interno di reparti appositamente predisposti, dove possano essere informati sui propri diritti, sulle regole interne al penitenziario, sulle opportunità fornite dal volontariato, dai servizi sanitari interni e sulle attività progettuali in corso. Questo approccio sarebbe altresì utile per il personale, affinché possa individuare eventuali problematiche e fattori di rischio tempestivamente.


Parallelamente, risulterebbe essenziale investire adeguate risorse per predisporre di un vero e proprio servizio di preparazione al rilascio, in collaborazione con gli enti e i servizi territoriali esterni, affinché la persona, al momento del reinserimento, sia concretamente supportata nel rientro in società e dotata degli strumenti fondamentali per riprendere una vita dignitosa. In tal modo si incarnerebbe, finalmente, il significato autentico della pena detentiva quale strumento per promuovere maggiore sicurezza collettiva insegnando al detenuto a non delinquere più.


Il carcere diverrebbe così l’espressione effettiva dello sforzo congiunto da parte del detenuto e degli altri attori coinvolti nel percorso che dovrebbe condurlo, una volta scontata la pena, verso la legalità.

 

 





Bibliografia e sitografia

-Antonelli S. (2023), Suicidi e autolesionismo: 5 donne si sono uccise in carcere nel 2022, Dalla parte di Antigone Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

-Buffa P. (2012), Il suicidio in carcere: la categorizzazione del rischio come trappola concettuale ed operativa, Rassegna penitenziaria e criminologica

-Manconi L., Anastasia S., Calderone V. e Resta F. (2015), Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, Milano, Chiarelettere editore srl

 






Image Copyright: La Repubblica

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