di Stefania Chiappetta.
Un classico gioco musicale apre il nuovo film di Yorgos Lanthimos presentato allo scorso festival di Cannes. Nei titoli di testa, il logo della casa di produzione Searchlight Pictures è “invaso” dalla canzone Sweet Dreams (Are Made of This) degli Eurythmics. La dimensione dell’ascolto è dapprima extradiegetica (esterna alla trama) rimandando ad un semplice accompagnamento della colonna sonora. Salvo poi trasformarsi in diegetica (interna alla trama) nella prima scena, proveniente dall’auto di un personaggio chiave – eppure secondario - di cui conosceremo solo le iniziali: RMF. L’uomo non solo aprirà gli eventi del film ma ne decreterà anche la loro fine, reclamando persino lo spazio dei titoli di coda.
Seguito al successo di Povere Creature!, Kinds of Kindness si presenta come un trittico allegorico in cui la co-autorialità nel film è divisa tra Lanthimos ed il suo storico sceneggiatore Efthymis Filippou. Una collaborazione che rimanda al “periodo greco” del regista iniziato nel 2009 con il film Dogtooth, tornata in scena con una narrazione suddivisa in tre diversi episodi, privi di un apparente legame. Basterebbe questo per far emergere un’originale autorevolezza nell’operazione produttiva del film, rendendolo un ibrido archetipico che vive (e muore) in una temporalità rarefatta, dove ad essere decostruito è l’arco narrativo che compone la sceneggiatura di un film.
Ognuno dei tre episodi dalla durata di circa 50 minuti ha infatti un punto di svolta ben chiaro, che permette all’utilizzo del grottesco lanthimosiano di polarizzare ironicamente le azioni dei vari personaggi. Lo stravagante RMF, le cui iniziali sono cucite sulla sua camicia, è il filo conduttore che unirà le varie trame portandole allo svolgimento, come fosse un autore intrinseco al film divenendo una eco della ricerca autoriale di Lanthimos e Filippou. I titoli dei tre episodi contengono tutti il nome di RMF, smascherando un suo continuo ritorno nonostante sia paragonabile ad un corpo-fantoccio privo dell’identità che serve ad un personaggio: non ha un passato, non ha una famiglia, non ha un lavoro; banalmente non ha una vita. Ciononostante le sue piccole entrate in scena stravolgeranno l’equilibrio dei vari microcosmi inscenati, come portatore di un caos mitologico e antropologico, pronto a capovolgere la parabola del potere sociale.
Il primo episodio di Kinds of Kindness, intitolato La morte di RMF, ha il compito di introdurre il trittico della vicenda e perciò presenta uno scenario ben noto al cinema di Lanthimos: quello ospedaliero. Il protagonista maschile è Jesse Plemons (vincitore della Palma d’oro a Cannes come miglior attore), un uomo la cui libertà di scelta è nelle mani del suo capo Willem Dafoe, sfumando così il rapporto puramente lavorativo fino a fonderlo con il privato della vita dell’uomo.
Il secondo episodio divide a metà le tre unità, contribuendo all’introduzione di elementi che sfociano nel sottogenere del body horror, inseriti nella relazione matrimoniale tra Jesse Plemons ed Emma Stone. Intitolato RMF vola, è la storia di un giovane poliziotto che cerca di sopravvivere alla scomparsa della moglie, dispersa su un’isola. Quando la donna verrà ritrovata, l’uomo si convincerà che il corpo in casa sua è solo un doppio ben somigliante all’originale, ma lontano dalla sua vera essenza.
Il terzo ed ultimo episodio, RMF mangia un Sandwitch, vede spiccare il personaggio di Emma Stone che, in caschetto corto e completo spiegazzato, danzerà scoordinatamente davanti alla macchina da presa nel mezzo della vicenda narrativa, per segnare una sua interpretazione autoriale\attoriale; un’indipendenza del personaggio rispetto alla sola volontà registica. Centrale è il tema della purificazione del corpo in mano ad una setta, per riuscire a controllare i confini della vita, avendo quindi padronanza sulla malattia e la morte.
Pur raccontando una storia diversa e slegata, gli episodi hanno tutti degli elementi in comune per produrre un legame unitario. In primis i volti degli attori che ritornano – Jesse Plemons, Emma Stone, Willem Dafoe e Margaret Qualley – dando vita a personaggi paragonabili a modelli archetipici. Essi, inseriti in un contesto spaziale in riferimento al mondo reale, tradiscono un’impotenza di fondo; sono corpi impazziti che cercano di sfuggire al controllo di una sovrastruttura che li soffoca, somigliante al sistema sociale contemporaneo e tuttavia portato all’estremo. Il matrimonio, il lavoro, il sesso legato solo all’atto riproduttivo, le malattie, gli incidenti, saranno quindi i grandi eventi universali condivisi – forzatamente – da tutta l’umanità.
Il mito del corpo viene affrontato come elemento di alterità pronto ad essere offerto, immolato, divorato, in nome di un potere che si avvicina all’allegoria della creazione (in questo caso del regista) come forza generativa, eppure fatalmente ostacolato. Lo rivela una dimensione realistica pronta a collassare su sé stessa, incorniciata da una glacialità fotografica in cui l’utilizzo del colore è intervallato da segmenti in bianco e nero che rimandano alla dimensione onirica. I personaggi, in particolare quelli femminili, raccontano spesso di sogni o ricordi del passato che, non a caso, non hanno alcun colore da mostrare. Una scelta chiara, soprattutto se si pensa che molto spesso nel cinema avviene il contrario: il colore per il sogno, il bianco e nero per il reale.
I Fish-eye (grandangoli), elementi ricorrenti della regia di Lanthimos, sono sostituiti con inquadrature fisse in campo lungo per restituire ambienti freddi, poco accoglienti, dove l’atmosfera diventa respingente. L’audience co-abita nel film in un mondo dove tutto è già avviato, già successo. In cui gli equilibri appaiono stravolti, vacillanti, ed il regno animale – in particolare quello canino – sembra pronto a prendere il controllo. Non rimane che ricostruire le conseguenze di incidenti repenti che pur rimandando alla parabola del tragico, hanno come elemento di fondo il tema (o la voglia?) della gentilezza. Nel caos si tradisce una smania di stabilità, nel destino già segnato la premessa di libertà, nell’abuso la possibilità di ottenere amore: nella morte il desiderio della vita.
Una ricerca utopica e vicina all’ossimoro quella di Kinds of Kindness, che viene tradotta in immagini per dare vitalità a personaggi sbilenchi, in cui non è più possibile indicare chi sia il carnefice violento e chi la vittima ingenua. La brutalità che segna la fine di ogni episodio troncando a metà il sentimento unitario del film, seppur spinta fino all’assurdo, pare tradire una brama di redenzione. Difficile stabilire di chi: se dei personaggi che cercano un autore, o del creatore che viene respinto dal discorso teorico prodotto sul film a causa della sua volontà di realizzare cinema autoriale. Il mondo di Lanthimos che collassa su sé stesso, dunque, non può essere che il nostro.
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