di Luca Simone.
La scorsa settimana ho avuto la possibilità di assistere all’inizio della seconda ondata della protesta delle tende, lanciata in tutta Italia da migliaia di studenti che invocano un trattamento giusto, una dignità adeguata e la possibilità di poter studiare e vivere senza dover essere gettati in un’arena sociale ingiusta e predatoria. Perché questo è diventata l’università italiana, un sadico esperimento in vitro di darwinismo sociale, dove sopravvivono solo quelli forti, o quelli che lo diventano grazie ai soldi dei padri. Ho scelto di raccontarli attraverso un reportage che non esce fuori né dalla testa né dal cuore, ma dalle budella, e allo stesso modo ho scelto di utilizzare in ogni puntata le foto più rappresentative. Spero mi si perdonerà il fatto che siano state scattate non nell’arco dell’intero soggiorno ma in un periodo di tempo più ristretto. Ricordatevi però che ogni foto ha dietro di sé una storia, indipendentemente da quando essa è stata scattata.
PARTE SECONDA
MATTINA
La mattina è il momento più difficile della giornata, appartiene quasi ad un mondo a parte, ad una civiltà ormai perduta. Una volta usciti dalle tende ci si deve confrontare con la pericolosa e fastidiosa necessità di rinunciare ad un pezzo della propria umanità, ma non si perde mai il sorriso. Non lo si perde neppure mentre ci si reca alla chetichella, uno per volta, nel bagno del bar della Sapienza a lavarsi con degli spazzolini avvolti in buste di plastica per il congelatore con l’asciugamano ben nascosto nello zaino. Nonostante tutta questa premura, però, sia le guardie giurate che i proprietari e i camerieri sanno benissimo che cosa stiamo andando a fare, e ci riversano addosso tutto il loro sguardo inquisitorio e la loro mancanza di empatia. Come se in un tempo lontano non fossero stati giovani anche loro, come se non abbiano mai deciso di amare su un prato e non si siano mai dovuti rinfrescare ad una fontana qualsiasi della capitale. Le tende sono per la città Sapienza e i suoi abitanti un fastidioso incidente di percorso. Tornati al campo base bisogna prepararsi all’ondata umana che travolgerà i cancelli, fatta di giovanissimi pischelli e pischellette, appena usciti dalle superiori, che si preparano ad entrare in quel mondo difficile e spigoloso che è l’Università. È pur sempre il giorno delle matricole, e le tende non sono state montate a caso. Niente è fatto a caso, ma a qualcuno piace pensare che a vent’anni si possa solo essere dei gran deficienti. Questa cosa mi crea fastidio, a qualcuno rassegnazione, a loro dà la forza di gridare ancora più forte, di guardare ancora più fissamente negli occhi quella migrazione di pinguini incravattati del rettorato che dribblando le tende bofonchiano tra i denti “incivili”. Sarebbe curioso chiedergli quale sia la loro idea di civiltà.
C’è un odore diverso rispetto a quello della notte precedente. La mattina si porta dietro una sensazione olfattiva autunnale che si mischia a quella tipica del bivacco di decine di esseri umani promiscui, e l’accampamento è esattamente questo. Un microcosmo apparentemente autosufficiente, una sorta di pausa dal mondo esterno. Al suo interno le regole sono semplici, comunitarie. Tutto il possibile è messo a disposizione di tutti e tutte, dal tabacco alle buste di biscotti al cioccolato sottomarca che servono a svegliare lo stomaco o ad aiutarlo a zittirsi. Non la gentilezza, ma la cordialità regna sovrana. Se la prima appartiene ai rapporti umani sviluppati, la seconda è invece ammantata di una formalità estraniante. Mi avvicino ancora assonnato al posto di comando sotto al gazebo e intravedo un ragazzone alto coi capelli corti, uno di quelli che la sera prima era stato definito “leader”. Ha le braccia conserte ed è seduto su una vecchia sedia di legno pieghevole mentre fissa un indecifrabile punto lontano, come a voler capire cosa possa arrivarvi. Mi vede e iniziamo a parlare, ci eravamo presentati la sera prima ma nessuno ricordava il nome dell’altro, e la conversazione è andata avanti senza che questa ingenua verità venisse a galla. Gli chiedo se sia teso per qualcosa, e lui mi risponde: “tra poco qua sarà pieno di giornalisti. Ci saranno quelli venuti a fare il loro lavoro, e quelli venuti qui a distruggerci. A dipingerci come un inutile branco di sfaticati che non ha voglia di fare qualche sacrificio”. Io non sono un giornalista, ma ne esercito a mio modo la professione, e mi sento quasi infastidito da quelle parole. Una parte di me vorrebbe dirgli “come ti permetti?”. Però non sono un ingenuo, so bene quanto si possa essere lontani dal livello minimo di deontologia in quella professione, ma nonostante questo mi sforzo di chiedere delle spiegazioni alle sue parole, quasi per giustificare me stesso, membro di una categoria di cui non faccio parte. Lui continua in tono pacato, spiegandomi che avere intorno giornalisti non è semplice, è un lavoro particolarmente usurante, sia perché “loro non vengono per capire, vengono per dire quello che c’è”, ma soprattutto perché “è difficile rappresentare, spiegare, lasciar penetrare il motivo per cui siamo e saremo qui ancora per molto, a chi non è addestrato a farlo”. Addestrato. Il termine che ha utilizzato mi scava un vuoto dentro. Non avevo mai pensato che si potesse essere “addestrati” a fare il giornalista, ma forse così è. Le parole di Leone, questo è il suo nome, mi restano dentro, e mi rimbombano in testa mentre lo vedo allontanarsi attirato da qualcosa.
Sono arrivati. Da un piccolo corteo di auto che si parcheggiano di fronte alla tendopoli esce uno sparuto gruppo di giornalisti accompagnato da cameraman, microfonisti e fotografi. Sono pochissime le persone già sveglie, la mattina si confonde ancora con la notte precedente, e il sole fa già fatica a sorgere per illuminare e scaldare lo spiazzale su cui si è sviluppata la protesta. Cameraman e fotografi si aggirano silenziosi tra le tende, fotografando e riprendendo tutto ciò che ritengono possa essere utile a servizi che verranno montati nelle ore successive, e andranno ad interrompere il pranzo tranquillo di milioni di italiani. I giornalisti iniziano ad avvicinarsi invece ai pochissimi irriducibili che si sono resi reperibili al bombardamento di domande e collegamenti che li aspetta. Io sono in disparte, col fedele taccuino rosso in mano, ma mi sento spaesato. Chi è venuto qui sembra a caccia di storie, e questi ragazzi e ragazze devono accettare il compromesso di raccontare le proprie ad estranei nel tentativo che queste possano fare breccia in un’opinione pubblica assuefatta dal disinteresse. È questo il mestiere del giornalista, e io lo so, non protesto, però dissento. Mi chiedo come pretendano di “aiutare” questa rivendicazione mettendo davanti ad una telecamera gente sempre nuova chiedendogli “perché soffri?”. Lo trovo un vuoto spreco di retorica. Mi si avvicina Mattia, un altro dei leader-primus inter pares che si occupano non di dirigere ma di ordinare la protesta, e mi chiede sconsolato cosa ne penso della scena. Io non so bene cosa rispondere, ma bofonchio a mezza voce di non essere d’accordo, e di avere in mente qualcosa di diverso per raccontare la loro storia. Vorrei rendere tangibile quello che vivono, pur usando un foglio e una penna. Lui si accarezza la barba nera ispida e mi risponde: “allora fallo, parliamo, racconta quello che penso, non tanto quello che sono”. Il discorso non dura moltissimo e spazia su molteplici argomenti, ma quello che mi colpisce è la sua conclusione. Poco prima di congedarsi, chiamato da uno dei fotografi che vuole la sua istantanea accanto alla tenda, mi dice semplicemente: “Noi vorremmo che questa protesta arrivasse sulla luna. Da maggio niente è cambiato. Ci hanno riempito di promesse e pacche sulle spalle, ma stavolta vogliamo avere di fronte a noi Rocca e la Bernini, non le pacche sulle spalle. E questo significa andare sulla luna. Noi però non abbiamo paura di salire sul razzo.”
Tra le varie troupe che si incaricano di stabilire un collegamento c’è anche quella del programma di Andrea Giambruno, il discusso compagno della premier Meloni. Non appena la notizia si sparge all’interno dell’accampamento si inizia a respirare un misto tra preoccupazione e impazienza. Giambruno, detto “l’uomo-lupo” dopo la sua allucinante gaffe riguardante la responsabilità di chi viene stuprata, può rappresentare un’occasione per mettersi in mostra, ma anche una pericolosa trappola. In un piccolo conciliabolo da cui mi tengo rispettosamente a distanza, emerge il nome di chi affronterà la prova. La selezione è stata semplice. Si è scelto quello che sul momento dava più garanzie fisiche di poter reggere un confronto con un rivale tanto fazioso. Sono tutti tremendamente stanchi. Avranno anche vent’anni ma non sono in tenda a fare un campeggio sul morbido manto erboso di un qualsiasi campo dei Castelli Romani. Dormono sul cemento freddo e si lavano nei bagni di un’università che non li vuole. Hanno tutti le facce scavate, i capelli ispidi e le occhiaie pronunciate. Non hanno niente di quella bellezza genuina che ci si aspetterebbe alla loro età. In una sola notte l’hanno consumata, sono dovuti crescere in fretta. Quelle tende sono delle incubatrici e non dei ripari dal freddo. Leone, il prescelto, si avvia con una sicurezza precaria verso la postazione scelta per il collegamento, ha un passo che nasconde dietro all’irriverenza dei suoi ventuno anni una paura quasi infantile, quella di sbagliare. Ad un certo punto, senza che nemmeno io riesca ad accorgermene, mi viene vicino una ragazza dai capelli ricci e mori. È bassina e ha ancora addosso la felpa che ha usato per ripararsi dal freddo la scorsa notte. Con un tono di voce calmo e gentile mi guarda e mi dice: “ora lo carico io”. Non ho il privilegio di realizzare, perché immediatamente lei attira la sua attenzione proprio mentre lo stanno microfonando e gli urla mettendo le mani alla bocca: “Leo, dije de mannacce a Giorgia”. Mentre la fontana copre con il suo rumore il silenzio che quella frase ha creato, la giornalista ha un sussulto, e sul suo volto nasce un sorriso di circostanza che ha il sapore acido di una smorfia. Ora è lei quella preoccupata. Ora sono loro che hanno paura di aver sbagliato.
GALLERIA FOTOGRAFICA
Arrivano.
Leone.
Rito apotropaico.
Sono venuti anche dalla Francia.
Miriam.
Contro l'uomo-lupo.
Le foto migliori non sono state scattate da me, mentre mi prendo la responsabilità di quelle più sgangherate e peggio illuminate. Spero di essere più bravo a tenere in mano una penna di una macchinetta fotografica. Per tutte le altre immagini venute bene, ringrazio di cuore Ginevra.
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