di Sofia Lazzarini.
Quante volte ci è capitato di camminare tra piazze dall’architettura monumentale e razionalista risalenti al Ventennio, quante di sentire nomi di città nuove come Vittoria o Littoria (ora Latina), di entrare in poste, scuole, caserme o altri edifici un tempo Case del Fascio, di scorgere i segni di fasci littori mal rimossi o direttamente lasciati sulle pareti di stazioni o università? Centodue anni dalla Marcia su Roma lo scorso 28 ottobre, quasi ottant’anni dalla fine del fascismo storico ed i suoi segni materiali rimangono ancora evidenti e tangibili in molte città sotto forme differenti.
Sembra quasi che la cosiddetta “teoria delle rovine” dell’architetto nazista Albert Speer si sia realizzata: i monumenti totalitari, secondo questa filosofia, dovevano essere “Rede als ewiger Zuege”, ovvero “parlare” come rovine agli uomini e alle donne del futuro (Sharon Macdonald, 2006: 124). Il fascismo, al pari degli altri regimi, cercò infatti di tramandare ai posteri i propri valori culturali e identitari anche e soprattutto tramite un’architettura fatta per durare nei secoli. La nuova arte, come quella nazista doveva avere caratteristiche monumentali, scenografiche, durature, moderne e commemorativo-celebrative sia della rivoluzione fascista che del passato nazionale. Il dittatore e l’architetto lavoravano fianco a fianco nel comune intento di dare alla nazione un’architettura contemporanea e di massa, ma che al contempo riprendesse i modelli classici in senso nazionalista e totalitario (George Mosse, 2009: 30).
Cosa ne fu dunque di questi lasciti materiali espressione diretta del Ventennio e della sua ideologia? Al termine del Secondo conflitto mondiale si assistette ad una de-mussolinizzazione più̀ che ad un’effettiva de- fascistizzazione. Come per altri paesi europei, si pensi alla Germania dopo il nazismo o alla Spagna terminato il periodo franchista, anche in Italia la rimozione dei simboli è stata spesso selettiva e non accompagnata da una riflessione critica collettiva; i diversi edifici rimasti incompiuti, inoltre, dopo la Liberazione vennero talvolta terminati nel rispetto dei progetti originali. Riprendendo le parole della storica Sharon Macdonald: “In general, however, removing swastikas was deemed a sufficient removal of Nazi agency” (Sharon Macdonald, 2006: 114) dal momento che, tolti i simboli, i monumenti colossali rimangono insieme al proprio bagaglio di difficult heritage. I segni del fascismo nell’arte, nell’odonomastica e negli edifici sono dunque tutt’oggi rimasti fortemente evidenti, in alcune città più che in altre, e la loro conservazione o rimozione, sempre frutto di operazioni selettive e negoziati, è per anni dipesa da molteplici fattori come le culture politiche locali, le forme della transizione o le pratiche memoriali (Stoltzfus e Bosworth, 2012: 566).
Viene dunque spontaneo chiedersi: come abbiamo o meno gestito nella pratica i tangibili lasciti del fascismo nonché l’ingombrante e problematica eredità connessa ad essi? La risposta è: generalmente, se non in pochi casi, superficialmente e in controtendenza rispetto ad altri paesi europei. Le memorie fasciste, al pari di quelle legate alla Grande guerra o alle imprese coloniali italiane, vengono ancora oggi percepite in modi differenti e gestite con contrasti e difficoltà. Nonostante la tendenza a normalizzare i lasciti materiali-monumentali ed ideologici legati al fascismo, dal 1945 non sono mancati dibattiti, polemiche e conflitti intorno alla gestione a livello locale e nazionale dei lasciti del nostro passato totalitario. Come per la Germania, infatti, molti luoghi sono stati conservati (l’EUR, il Foro Italico, un tempo Foro Mussolini, la Sapienza ecc) e risignificati (ne sono da esempio le molte Case del Fascio sedi oggi di uffici, comuni, poste, scuole ecc.), amputati o demoliti.
Le amministrazioni locali scelsero spesso di riutilizzare a-criticamente gli edifici connessi alla dittatura mettendo in atto un vero e proprio “trasformismo mimetico”, utile ad eliminare le tracce del recente passato per non ostacolare il cammino verso il futuro democratico, più che ri-significarli e riflettere sulla loro difficile memoria. Queste rapide de-localizzazioni o demolizioni, impedirono alle commemorazioni di avere un “aggancio fisico”, facendo sì che il fascismo e i suoi crimini sembrassero scomparire, almeno temporaneamente, dalla nostra reminiscenza. Le memorie critiche, mai univoche, definitive o condivise unidirezionalmente, sono indissolubilmente connesse ad aspetti non solo ideologici ed emotivi ma anche e soprattutto fisico-materiali; la rimozione dei segni a livello visivo può infatti comportare, almeno temporaneamente, una sollevante amnesia-amnistia collettiva (Remo Bodei, 1992: 180).
A differenza del nostro paese, in Germania molti luoghi della persecuzione nazista sono divenuti dagli anni Novanta siti di memoria attiva ed apprendimento (si pensi al centro di documentazione sul nazismo a Norimberga o a quelli siti negli ex campi di Dachau o Mauthausen), mentre in Spagna la Ley de memoria histórica (2007) introdotta durante il governo Zapatero e la Ley de memoria democratica proposta da Sanchez (2022) hanno contribuito al riconoscimento dei crimini franchisti e ad una gestione più consapevole e critica dei lasciti dei luoghi della dittatura franchista come la Valle de los caídos, liberata, tra l’altro, dalla presenza della tomba di Francisco Franco e di Primo de Rivera tra 2019 e 2023 (Andrea Hepworth, 2014: 463). Non possiamo purtroppo dire lo stesso per l’Italia dove ancora troppo scarsa è la sensibilizzazione e la responsabilizzazione storico-critica a livello collettivo riguardo ai lasciti simbolici e materiali del fascismo. Nonostante i musei del Novecento, come quello a Mestre o a Milano, nel nostro paese solo a livello dibattimentale si è discusso riguardo alla creazione di un possibile museo nazionale sul fascismo, a Predappio o in altri luoghi, e molti siti della dittatura rimangono ancora sguarniti di un’elaborazione memoriale critica che non sia unicamente nostalgico-celebrativa e fanatica (Giulia Albanese e Lucia Ceci, 2022: 39).
L’assenza in Italia di un museo nazionale capace di narrare le molteplici e durature prospettive del nostro passato totalitario rende ancor più̀ urgente una sua metabolizzazione. L’articolo della storica statunitense Ruth Ben- Ghiat pubblicato nel 2017 sul New Yorker, dal titolo: “Why are so many fascist monuments still standing in Italy?”, ha svolto un ruolo chiave nel portare il dibattito sui luoghi del fascismo fuori dall'ambito esclusivamente accademico, ampliandolo a una dimensione pubblica e quotidiana (Ruth Ben-Ghiat, 2017: 1). Tuttavia, molti hanno frainteso le posizioni della studiosa come un attacco alla materialità̀ dei monumenti, e dunque come un invito alla loro demolizione, quando in realtà̀ Ben-Ghiat tendava di stimolarne una riflessione. D’altra parte, la rimozione o l’occultamento dei simboli fascisti non ha mai rappresentato una soluzione efficace nonostante essi siano, oggi come all’ora, la palese incarnazione materiale dell’essenza ideologica del regime stesso.
È indispensabile dunque intraprendere un processo collettivo di depotenziamento e storicizzazione dei lasciti fisici del fascismo nelle nostre città, per consolidare e proseguire quel dibattito complesso e approfondito finora quasi unicamente dal mondo accademico, in particolare dai cosiddetti heritage e material studies. Questi, infatti, hanno permesso a molte storiche e storici di approfondire i legami tra materialità e ideologia ed i nessi tra costrutti sociopolitici, storie e politiche locali e nazionali nell’analisi dei lasciti monumentali totalitari. Nella storiografia si parla dunque di difficult heritage; ovvero: “A past that is recognized as meaningful in the present but that is also contested and awkward for public reconciliation with a positive, self-affirming contemporary identity. ‘Difficult heritage’ may also be troublesome because it threatens to break through into the present in disruptive ways, opening up social divisions, perhaps by playing into imagined, even nightmarish, futures” (Sharon Macdonald, 2009: introduzione). Tuttavia, se è cruciale attribuire un’agency ai monumenti e ai luoghi della memoria, lo è anche non deresponsabilizzare l’azione umana dipesa talvolta da un’esclusiva attenzione sull’inanimato. Ecco il motivo per il quale è necessaria non solo una discussione sulla materialità ma anche e soprattutto sulla sua gestione nel tempo.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio introdotto nel 2004, in sostituzione alla Legge Bottai del 1939, ha imposto la conservazione e il restauro di molti monumenti del regime senza tuttavia proporne una vera e propria contestualizzazione critica. Non essendo la memoria qualcosa di neutro ma di partigiano, considerare i monumenti e l’arte fascista solo da un punto di vista artistico, svincolandoli dal proprio passato storico, può̀ risultare pericoloso. Purtroppo, la cecità̀ e la conservazione passiva sono stati spesso adottati come una comoda via per evitare elaborazioni e riflessioni, contribuendo a rendere questa eredità difficile qualcosa di ancor più̀ impenetrabile. Si è passati dunque dalla damnatio memorie post-bellica, allo status di beni culturali contemporaneo (Giulia Albanese e Lucia Ceci, 2022: 131). Dagli anni Novanta, inoltre, si è assistito anche ad un indebolimento della consapevolezza di quel portato memoriale antifascista, risvegliatosi attualmente grazie all’emersione di sensibilità̀ e memorie “nuove”. Valorizzando pezzi di un passato ancora poco riconosciuto e/o accettato, poiché́ connesso alle violenze fasciste nei confronti di minoranze o alle imprese coloniali, sono infatti stati avviati numerosi progetti come pietre d’inciampo, mappature, risignificazione di monumenti del Ventennio o organizzazione dal basso di gruppi ed associazioni (Giulia Albanese, 2022: 48).
Se in Germania, tuttavia, sono diversi i memoriali, i musei e i centri di documentazione sul nazismo anche in prossimità degli stessi luoghi simbolo della dittatura, in Italia, spesso, i visitatori rimangono privi di un contesto storico attraverso cui poter comprendere la genesi del regime e la costruzione della sua ideologia impressa nell’evidente materialità dei monumenti architettonici. Il nostro paese, inoltre, in controtendenza rispetto al resto d’Europa, in cui i monumenti contestati vengono musealizzati, non solo apre al pubblico i luoghi simbolo della dittatura senza favorirne una contestualizzazione e comprensione storica, ma persiste nel restaurare e nel mostrare apertamente i simboli un tempo camuffati. Si pensi al caso dell’affresco “l’Apoteosi del fascismo” di Montanarini nel salone del Coni, censurato, poi restaurato e risemantizzato nel 2015, il quale ancora oggi sconvolge le delegazioni internazionali restie a farsi immortalare dai giornalisti sotto una tale opera.
Partendo dalle criticità e dai punti di forza emersi nel caso di Norimberga, l’Italia potrebbe e dovrebbe adottare un approccio più responsabilizzante nella tutela del proprio critical heritage. Abbandonare le tradizionali metodologie narrative potrebbe, da una parte, essere una soluzione per trattare la materialità fascista con una sensibilità pratica e teorica differente. Come per i documenti storici gli approcci interpretativi e narrativi si sono, almeno dalle Annales, modificati e integrati ad altri aspetti come l’interdisciplinarietà o la presenza di “nuove” soggettività e agenti storici, anche per i luoghi della memoria fascista, dall’odonomastica alle costruzioni monumentali, si potrebbero introdurre nuovi approcci e progetti museali (essendo provvisti di museo nazionale sul fascismo). La mappatura dei luoghi della memoria dell’Italia fascista attuata dall’Istituto Nazionale “Ferruccio Parri”, ad esempio, dimostra la possibilità di andare oltre la censura, la banalizzazione o la conservazione passiva attraverso una cosciente presa di distanza e un approccio storico-critico. Se camuffare la dimensione e l’eredità ideologica fascista può apparire come un’operazione più fattibile, non lo è per la materialità dei monumenti, la quale continuerà a influenzare la società contemporanea sin quando non verrà affrontata davvero collettivamente.
Fotogallery
Mappa dell’Impero coloniale italiano sulla facciata del Comune di Padova
Monumento alla Vittoria di Bolzano costruito da Piacentini tra il 1926 e il 1928
Piazza Vittoria a Brescia costruita da Piacentini tra il 1927 e il 1932
L’Apoteosi del fascismo di Montanarini nel salone del Coni a Roma
Centro di documentazione sul nazismo a Norimberga
Mostra nel Centro di documentazione a Norimberga
Il Cortile Nuovo di Palazzo Bo a Padova costruito da Gio Ponti dal 1932
Bibliografia e sitografia
-Albanese G. e Ceci L. (2022), I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione, Roma, Viella
- Ben-Ghiat R. (2017), Why are fascist monuments still standing in Italy?, The New Yorker
-Bodei R. (1992), Addio del passato: memoria storica, oblio e identità collettiva, Bologna, Il Mulino
-Bosworth R.J.B e Stoltzfus N (2009), Memory and representations of fascism in Germany and Italy, in in The Oxford Handbook of Fascism, Oxford University Press
-Hepworth A. (2014), Site of memory and dismemory, the valley of the fallen in Spain, journal of Genocide Research
-Macdonald S. (2009), Difficult heritage: negotiating the nazi past in Nuremberg and beyond,
London, Routledge
-Macdonald S. (2006), Words in stone? Agency and identity in a Nazi landscape, Journal of Material Culture, Vol. 11, London, Sage Publications
-Mosse G. (2009), La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna, Il Mulino
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