La "Mano Invisibile" non esiste
- Koinè Journal
- 1 day ago
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di Caterina Amaolo.
«La guerra fredda non è finita, continuano anche alcuni spargimenti di sangue locali, ma la gente è al riparo e li guarda come grandinate estive in un giorno di sole». Questo scriveva Italo Calvino nel 1961 parlando della percezione della storia che si aveva in quegli anni. Se oggi volessimo descrivere con una formula sintetica lo stato d’animo che attraversa la scena politica contemporanea, dovremmo dire che l’impressione di essere al riparo si è dissolta completamente.
Tale timore aleggia nell’aria in modo sempre più fitto e convive con un panorama politico contemporaneo in cui è ormai evidente l’idea che le società occidentali non sappiano più immaginare un’alternativa che non sia la degenerazione autoritaria della democrazia liberale o il disordine. La stessa politica europea sta dimostrando che se i tuoi interessi sono la protezione dei confini, l’egemonia occidentale nel mondo, il mercato libero, la crescita del PIL, le politiche di destra tendenzialmente funzionano meglio e sono molto più appetibili ai cittadini. Non è possibile perseguire gli stessi obiettivi proponendosi come forza politica moderata, perché in questo caso, si è destinati a soccombere in quanto non abbastanza di destra per chi vota a destra e non abbastanza di sinistra per chi, invece, vuole politiche che guardano a priorità del tutto differenti.
L’illusione della globalizzazione
Negli ultimi trentacinque anni le disuguaglianze nei paesi occidentali sono aumentate a dismisura. La consolidata convinzione per cui “l’alta marea solleva tutte le barche, grandi e piccole” - cioè che la crescita economica porta maggiore ricchezza e un tenore di vita più alto a tutte le classi sociali - pare oggi più fragile, delegittimata dai fatti e dai numeri.
Da quando il dogma neoliberista si è instaurato nelle università prima e nella politica poi, a partire dagli inizi degli anni Ottanta, abbiamo assistito ad un considerevole aumento delle disuguaglianze. La crescita economica è finita nelle tasche dei pochi a causa delle politiche regressive a favore dei ricchi adottate dai governi e - più in generale - di una concezione economica incentrata sulla massimizzazione del profitto di breve termine e sull’imperativo categorico della crescita.
Come scrive Joseph Stiglitz - economista statunitense, premio Nobel per l’economia nel 2001 e professore alla Columbia University - «l’alta marea ha fatto salire solo i grandi yacht, lasciando molte delle barche più piccole a infrangersi contro gli scogli»: la metafora della marea è la denuncia di come alla fine il liberismo economico lascia ammarare i pesci piccoli, morenti, sulle rive; mentre i grandi continuano a nuotare a fondo.
Negli ultimi trent’anni si è verificato un costante deterioramento del potere contrattuale dei lavoratori. I salari sono cresciuti molto meno della produttività e i sindacati hanno perso il ruolo determinante che prima della svolta neoliberista potevano vantare, si pensi alla sconfitta inflitta dalla Thatcher al potentissimo sindacato dei minatori inglesi nel 1984-85. La globalizzazione ha, inoltre, declassato ulteriormente la posizione dei lavoratori «con un capitale altamente mobile, e con tariffe basse, le imprese possono semplicemente dire ai lavoratori che se non accettano salari più bassi a condizioni di lavoro peggiori, l’azienda si sposterà altrove». Stiglitz punta il dito contro le scelte politiche degli ultimi trentacinque anni, subordinate all’ideologia secondo cui se un’economia cresce, ne beneficiano tutti. I fatti sono valsi a dargli ragione: l’esperienza ha evidenziato che raramente i benefici della crescita “filtrano verso il basso”. Per questo, sostiene l’economista, sarebbe tanto necessario quanto urgente invertire la rotta.
Economia e disuguaglianze
Sono diversi i modi in cui la disuguaglianza può danneggiare l’economia. Innanzitutto, questa produce un indebolimento della domanda aggregata e una riduzione dei consumi. Vi è poi il problema della disuguaglianza di opportunità: chi nasce negli strati bassi della società difficilmente potrà esprimere il suo potenziale, con la conseguenza che, nel lungo periodo, questo spreco di capitale umano potrebbe fungere da ostacolo ad una solida crescita economica. Infine, secondo l’economista, i paesi con una maggiore disuguaglianza sono quelli meno inclini ad implementare politiche di investimenti pubblici in settori strategici come quello dei trasporti pubblici, delle infrastrutture, dell’istruzione, della ricerca e della tecnologia; questo perché coloro che possono vantare redditi alti - e una maggiore forza persuasiva nell’intreccio con la politica - sono interessati più ad una politica fiscale accomodante che all’attenzione verso i servizi pubblici.
In caso di informazione imperfetta o asimmetrica e di potere monopolistico, mercati deregolamentati ed eccessivamente flessibili possono portare a equilibri subottimali, in cui ad esempio alcuni agenti hanno una quota sproporzionata del reddito nazionale, o ancora parte dei fattori produttivi, è disoccupata.
La ricerca di Stiglitz, insomma, ha contribuito in modo fondamentale a far capire perché la mano invisibile di Adam Smith non si vede: perché non c’è.
L’aumento delle disuguaglianze, il rallentamento della crescita, l’aumento dell’instabilità e il ritorno delle grandi crisi finanziarie che erano a lungo state eliminate, la rottura dell’ascensore sociale e quindi del sogno - soprattutto americano - dell’uguaglianza di opportunità, il deterioramento del sistema educativo, sempre più costoso e ormai incapace di favorire la mobilità sociale, sono tutti risultati di un sistema economico che non è più capace, come lo era stato nel dopoguerra, di innalzare gli standard di vita e il benessere collettivo.
La politica della concorrenza, per anni, ha spinto verso la deregolamentazione e la liberalizzazione dimenticando, o facendo finta di dimenticare, che in un mondo reale in cui il potere di mercato e le asimmetrie sociali sono la norma, questo non avrebbe portato a più innovazione e progresso economico e sociale, ma solo - come è avvenuto - a rendite e sfruttamento, posizioni dominanti, disuguaglianze crescenti. Ancora, il liberoscambismo senza regole ha generato l’appropriazione dei frutti della globalizzazione da parte di alcuni paesi e, all’interno di questi, all’impoverimento delle classi medie e inferiori a favore delle élite globali.
All’altro estremo di ciò, si colloca la reazione di un protezionismo che - invece di lavorare a regole del gioco che distribuiscano equamente i frutti della globalizzazione - propugna un impossibile ritorno a un commercio internazionale fatto di rapporti di forza e barriere commerciali nella vana speranza di riuscire a fermare l’emorragia di posti di lavoro.
Le disuguaglianze non sono figlie naturali dell’economia in sé, sono il frutto di un certo tipo di approccio economico, di una concezione che da più di trent’anni ha inteso la massimizzazione del profitto nel breve periodo come l’imperativo categorico da seguire. Sono da ristabilire le regole del gioco, questo è il monito dell’economista. Anche perché, per quanto si voglia spesso far credere il contrario, in fin dei conti è tutta una questione di scelte politiche.
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