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Writer's pictureKoinè Journal

La stanza accanto (2024)


di Stefania Chiappetta.


«La morte è innaturale per me» spiega Ingrid (Julianne Moore) ad un’amica nella libreria Rizzoli di New York, luogo in cui sta firmando le copie del suo nuovo romanzo. Il perché è presto detto: la donna, una scrittrice che usa la finzione drammaturgica per spiegare – e spiegarsi a sua volta – la vita, non accetta che qualcosa di vivo possa morire. La sua non è, almeno non solo, paura della morte quanto del decadimento, dell’interrompersi del flusso umano per varcare le porte di un altrove sconosciuto. Di conseguenza La stanza accanto di Pedro Almodóvar, vincitore del Leone d’oro come miglior film allo scorso festival del cinema di Venezia, accade nella vita del personaggio di Ingrid proprio come una chiamata alla conoscenza. La soglia che divide la vita dalla morte deve ora essere affrontata perché la sua amica di vecchia data, Martha (Tilda Swinton), ha un tumore alla cervice in fase terminale.


Unite dalla scrittura, dell’amore passato per lo stesso uomo (John Turturro), l’amicizia tra le due prospera nel tempo cinematografico come equivalente di una vita trascorsa. I luoghi dell’oggi di Martha, la sua stanza d’ospedale e la sua casa a Manhattan, sono frammentati da flashback del passato che portano il film verso un ottundimento emozionale. Martha, sfruttando l’atto del raccontarsi ad Ingrid, permette alle immagini del film di conservare il suo passaggio nel mondo, preservandolo dalla perdita imminente. Un testamento visivo che invoca un confronto, perlopiù simbolico, con gli affetti che hanno scandito i suoi anni. Nonché verso i diversi ruoli che ha ricoperto, racchiusi tutti nel difficile rapporto che ha ora con sua figlia, il corpo mancante nella storia della sua malattia.


Eppure il flusso, spesso interrotto, dei ricordi della donna è soprattutto legato al suo lavoro di reporter di guerra, restituendo alla scrittura cinematografica la freddezza derivata dalla vicinanza perenne alla morte. Ingrid, la scrittrice di successo, teme la morte perché non la conosce, perché incapace di accettarla se non attraverso la letteratura, che richiede abbellimenti e aggiustamenti. Martha al contrario sa capirla e consegnarsi ad essa, decidendo con forte chiarezza di ricorrere al suicidio assistito. Lo spinoso tema dell’eutanasia e della sua illegalità, nel film sintomo di un sistema sanitario sull’orlo del collasso, sottrae dalle immagini quella voglia voyeuristica di vedere corpi sofferenti e malati. Martha infatti vuole imporre alla morte il suo volere, i suoi tempi, il suo addio alle cose del mondo. Vuole ritagliarsi un posto in cui sottrarsi dalla vista, riservandosi un luogo privo di ricordi intimi per scomparire: la scelta ricade su una casa isolata al limitare del bosco, arredata elegantemente, con sdraio esterne in cui crogiolarsi al sole.


I corpi delle due interpreti, Julianne Moore e Tilda Swinton, congelate esteticamente dalla regia di Almodóvar, rivelano le loro differenze proprio attraverso la vicinanza intima dello spazio condiviso. La morbidezza di Ingrid, i suoi capelli rossi e curati, le pile di libri accatastati nella sicurezza del tempo che ancora resta, diventano lo scoglio contro cui si infrange la spigolosa figura di Martha. Diafana e affaticata, incapace di concentrarsi sulla lettura ed impossibilitata a scrivere, scalza con l’avanzare della sua malattia il grado di emotività legato all’approssimarsi di un drammatico evento.


Per Almodóvar La stanza accanto è il primo lungometraggio in lingua inglese nella sua carriera, tematicamente unito ai suoi lavori ma al tempo stesso adiacente, come sulla soglia della sua filmografia. La contiguità alla forma del melò che caratterizza la sua visione artistica, impronta la scrittura verso una forte lucidità rappresentativa, allontanando la catarsi emozionale nonostante i temi affrontati. La sceneggiatura del film, tratta dal romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez, pur rivelando la superficialità dei discorsi sociali che l’eutanasia comporta, non sfocia mai nella metaforica narrazione superficiale della malattia.


Il tumore terminale di Martha è libero dalla pietà artificiosa di chi la circonda; quindi la vicinanza ad Ingrid, fiorente nella sua amicizia, serve principalmente per sottolineare la freddezza della morte. La regia di Almodóvar, come spesso accade, interviene nelle immagini in sottrazione ma per farlo necessita di geometrie, contorni e spazi fisici da riempire. I luoghi del film sono così caricati di oggetti, di carte da parati, di colori saturi e sgargianti: eleganti quanto impersonali, glamour quanto disperatamente attaccati a ciò che resta della quotidianità.


L’interno della casa isolata diventa così un luogo di passaggio tra la vita e la morte. La soglia precedentemente citata, la “stanza tutta per sé” (come direbbe Virginia Woolf, solo una dei nomi d’ispirazione del regista) in cui il terrore della fine viene esorcizzato, annullato, attraverso forme artistiche diverse. Il passaggio umano, rivela Almodóvar, non può esaurirsi con la fine del corpo: alle pareti resta appeso il quadro Gente al sole di Edward Hopper, il lettore DVD riproduce i film di Buster Keaton, Gente di Dublino di James Joyce è fissato sulla carta stampata ed impresso nella memoria. Forse è vero che i fantasmi esistono e posso tornare, almeno nello spazio delle immagini filmate e riprodotte.



Image Copyright: MovieDigger


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