di Valentina Ricci.
Si avvicina la data del Congresso del Pd e non perché i giorni sul calendario scorrono, ma perché è stata letteralmente avvicinata di un mese dall’ancora segretario Erico Letta. Il 19 febbraio 2023 chi vorrà potrà votare il nuovo o la nuova testa del partito. Eppure nulla si muove. Qualcuno di avveduto potrebbe ipotizzare che l’anticipazione sia giustificata dalla necessità di guidare il partito attraverso le elezioni regionali di Lazio e Lombardia, ma così non è perché in Lazio si voterà una settimana prima (il 12 e 13 febbraio) e probabilmente anche in Lombardia. Sotto questa luce potrebbe quasi sembrare che Letta si stia costruendo una bara e voglia che le primarie diventino il suo funerale politico. Forse un ultimo sacrificio, la presa in carico anche dell’ennesima sconfitta alle regionali, potrebbe dare una luce ancora migliore al neoeletto paladino della sinistra italiana. Ma allora vediamo chi sono i candidati a ricoprire un tale e importante incarico.
Ultima e celebre candidatura è quella di Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, sicuramente il più entusiasta di tutti. Primo della fila, studente modello, tirato a lucido e paladino delle folle, è una storica presenza del partito e non si sa bene da dove dovrebbe far partire la tanto acclamata svolta. Il punto principale della campagna portata avanti da Bonaccini è di ricondurre il partito all’unità e di voler porre fine al dramma delle correnti che rallentano e fanno a pezzi il partito da anni. Peccato che la sua candidatura, così come quella futura di Elly Schlein (si aspetta l’annuncio ufficiale per domenica), siano già sostenute dai big del partito, chiaramente schierati con le loro correnti e correntine. Il risultato di un’innovazione che non vuole cambiare i volti dei suoi rappresentanti, è un partito dove, nella migliore delle ipotesi, quello che spinge i suoi vertici a non arrendersi all’idea di doversene andare per poterlo salvare è l’immatura ingenuità di credere di poter cambiare gli schemi del partito senza prima modificare quelli mentali. Nella peggiore delle ipotesi invece, a buon intenditore poche parole…
Ma torniamo per un attimo alla svolta citata sopra: sembra che non si capisca bene da che parte si voglia svoltare. Sembra un déjà-vu di settembre. Il Pd deve riscoprire il legame con il territorio, deve schierarsi dalla parte dei deboli, dei migranti, dei lavoratori, ma come? Ce lo stiamo tutti chiedendo da mesi, e la ricerca di una risposta è stata messa in sospeso. Ed è una reazione del tutto logica da parte di persone abituate alle certezze di una salda posizione al centro; negli ultimi tempi però questa posizione non basta più, è erosa da destra e da sinistra, e per poter ricominciare deve arrendersi a una più sindacabile ma anche più chiara scelta di campo.
Se si volessero drizzare le antenne, gli stimoli e le idee per schierarsi a sinistra verrebbero direttamente dalle iniziative di governo: la legge di bilancio, nei piccoli spazi di manovra consentiti dalla crisi delle bollette e dei prezzi, è chiaramente schierata a destra. L’assistenza che spettava alle fasce di popolazione più povere è stata rivolta alle fasce medio-alte, mettendo grandi limiti al reddito di cittadinanza (con la promessa di abolirlo nel 2024) ed estendendo la tassazione al 15% (flat tax) ai redditi autonomi fino a 85.000 euro. Il contante è pronto a rinascere dalle sue ceneri con un tetto massimo all’uso fissato a 5.000 euro e l’obbligo di accettare pagamenti con carte soltanto a partire da 60 euro. Insomma, incentivi e strizzate d’occhio all’evasione, della serie “se non possiamo sconfiggerli, facciamoceli amici”, fiscalmente parlando questa volta. Un’altra misura degna di nota è la riproposizione dell’Opzione donna, già introdotta da Berlusconi nel 2004, e ora rispolverata con qualche paletto in più, ma pur sempre con un occhio di riguardo per le donne di serie A, le madri. Quelle di serie B si sposassero almeno beccano 20.000 euro, e con un uomo mi raccomando, le altre schifezze mica sono ammesse, parola di Fontana.
Se le novità di questa manovra fanno accapponare la pelle, aspettate di sentire chi sono i due grandi esclusi: istruzione e sanità. Senza entrare nel merito della questione, la sola idea di non considerarle delle priorità dopo due anni di pandemia da cui abbiamo raccolto un sistema sanitario distrutto e bambini e ragazzi fortemente colpiti dall’assenza della scuola come ambiente di formazione e di socializzazione dovrebbe spaventarci. Alla luce di questa paura e ansia davanti a liste di attesa per un controllo gratuito lunghe mesi, o quando un genitore vede il futuro del proprio figlio alla mercè degli eventi, chi dovrebbe preoccuparsi di rassicurare i cosiddetti cittadini?
Forse il candidato alla segreteria del partito democratico dovrebbe iniziare a pensare il futuro del suo schieramento proprio da questa domanda. Senza trovare la risposta nella corrente più forte.
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