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di Ivan Rubino.
Siamo alla mezzanotte del 12 ottobre 1492, mesi di digiuno privano ogni persona della propria facoltà mentale, le incertezze impresse nella testa, come schizzi spumosi delle onde che irrompono nell’imbarcazione, i vestiti completamente fradici.
Qualsiasi speranza sembra ormai abbandonata, la flotta di Cristoforo Colombo non sarebbe giunta al termine della spedizione; All’improvviso un semplice marinaio, Rodrigo de Triana, scorge una luce, un bagliore che “si sopiva e si rinfocolava, come una candelina di cera”.
Si rivolge a Pero Gutierrez, credenziere del Re, e all’Ammiraglio, conscio della luce, dal momento che l’aveva già notata quella sera dalla parte rialzata della nave, ma che preferì non affermare fosse terra, data la sua esiguità.
I dubbi diventano certezze, i sogni divengono realtà: Alle due di quella notte, gli equipaggi della flotta vedono terra.
Preferiscono non attraccare subito, temporeggiano fino al venerdì, quando giungono a Guanahanì, nome indigeno dell’odierna isoletta nel gruppo delle Bahamas, successivamente battezzata da Colombo con il nome di “San Salvador”.
Vedono alberi, altissimi fusti, di cui non si riesce a vedere il vertice, con rami sorprendentemente diversi l’un l’altro, nonostante appartengano alla stessa pianta, una sorta di innesto naturale;
Le acque limpide ed abbondanti precipitano dalla montagna, coperta da alberi da frutto mai visti prima.
All’interno del suo “giornale di bordo”, di cui oggi si è persa la versione originale (ma esistono fonti indirette, seppur autorevoli, quale la sua biografia conclusa dal secondogenito Fernando), un diario redatto da Colombo con lo scopo di rendicontare il suo storico viaggio ai sovrani di Spagna, suoi finanziatori, l’ammiraglio Genovese descrive lo scenario idilliaco che lo circonda, completamente stupefatto alla vista di tali paesaggi, tanto che, con l’incedere della narrazione, più volte si soffermerà alla loro vista definendoli “i più belli che lui abbia mai visto”.
Tuttavia, avanzando nella lettura, si può cogliere tanto lo straordinario potere di scoprire una nuova isola, lo stupore nell’ affacciarsi in un mondo ignoto agli occhi occidentali, quanto la dolorosa conoscenza delle finalità che ci celavano dietro essa.
“L’avventuriero” non si limita a descrivere “l’incanto” per una nuova terra. Particolarmente attratto dall’oro e dalle pietre preziose, il suo primo obiettivo è quello di circumnavigare le isole contigue con il solo scopo di cercare quest’ultime; Attraverso il resoconto dell’ammiraglio, fa notare come le popolazioni siano particolarmente “mansuete”, tanto da barattare grandi quantità di cotone, materiale fondamentale per lo sviluppo della storia moderna, in cambio di monete, cocci di scodella e tazze di vetro; Inoltre ritiene che la popolazione “si sarebbe data e convertita alla nostra Santa Fede con l’amore che non con la forza”, speranza quanto più disillusa.
Il testo consente di avvertire questo spregiudicato tentativo di defraudare un popolo, un territorio, privarlo letteralmente delle sue radici e ridurlo senza mezzi termini ad un mero tornaconto economico.
Oggi, circa cinquecento anni dopo quello che sarebbe stato considerato come il tramonto del medioevo e l’alba dell’età moderna, si continuano a perpetuare i medesimi comportamenti, vengono avanzate le stesse ipocrite pretese per legittimare eventi, che ancor di più nella nostra epoca sono ormai profondamente appresi e compresi in tutta la loro tragicità, contribuendo a rendere isole, con le proprie usanze e costumi tradizionali, semplici “isole del tesoro”, con la consapevolezza storica che in esse, nella vita reale ,non si trovano pirati che cercano affannosamente una ricchezza sepolta, memori del celebre romanzo di Robert Louis Stevenson, ma potenti e spietate multinazionali che tentano di strappare porzioni di terreno per trovare preziose ed utili risorse .
Dunque, nello specifico, quali sono le motivazioni, i modi operandi, le conseguenze, determinanti nell’ impedire il corretto sviluppo di realtà profondamente fragili, quali le isole?
Le conseguenze per le isole
Il vorace sfruttamento della biodiversità di un territorio, la completa disgregazione del tessuto sociale delle popolazioni native, costituiscono le maggiori implicazioni che si possono riconoscere in questi contesti.
A tal proposito, arriva a sostegno una minuscola isola situata nel Pacifico, la più piccola Repubblica indipendente del mondo, sia per numero abitanti, sia per superfice del territorio: Nauru. Questo stato insulare, un tempo teatro di lussureggiante vegetazione, una viva barriera corallina, casa di numerose specie, anche endemiche, si trova a suo malgrado, a partire dagli inizi del XX secolo, al centro di quella che sarà una vera e propria “corsa ai fosfati”.
Difatti, in questo secolo vengono scoperti a Nauru ricchissimi giacimenti di fosfato, che coprono gran parte dell’area esterna dell’isola, elemento fondamentale per l’industria chimica e farmaceutica, particolarmente facile da estrarre con la tecnica del “strip mining” (miniera di superficie); E’ inevitabile l’immediato interesse degli imperi coloniali di inizio 900, che finirono con il rendere un’oasi di biodiversità, una vera e propria miniera a cielo aperto: La tecnica sopracitata ha come “effetto collaterale” la completa infertilità del terreno, che, oltre a creare un malessere dal punto di vista paesaggistico a causa della progressiva scomparsa di vegetazione, diviene incapace di produrre alimenti per la popolazione locale.
Inoltre, lo sversamento in mare di componenti chimiche atte alla lavorazione del fosfato, ha irrimediabilmente compromesso la flora e la fauna marina, impedendo una delle più importanti forme di sostentamento dell’isola nel corso dei secoli: la pesca.
Dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Corona Britannica nel 1968, gli introiti economici delle vendite del minerale passano, seppur con severe distinzioni all’interno, al popolo dell’isola, che, al netto degli ingenti profitti derivati, possono condurre una vita sfarzosa, senza dover lavorare.
Il risultato di questo scempio? Gli abitanti dell’isola si impigriscono, perdono progressivamente le proprie radici culturali; trascorrono intere giornate sfrecciando con auto di lusso nell’unica strada, che circonda l’isola, bevendo continuamente alcolici.
L’alcolismo è un problema più che serio a Nauru, così come l’obesità: Abbandonano la propria dieta sana e bilanciata, che li aveva per secoli plasmati, a favore di alimenti poco nutrienti e processati, in quanto per essere importati devono percorrere notevoli distanze, che hanno fatto guadagnare, a loro malgrado, il titolo di stato con la più alta percentuale di obesi (95%) e persone affette da diabete (31%).
Le isole, date le loro modeste dimensioni e la completa lontananza dalla civiltà, rappresentano l’oggetto “prediletto” di azioni talmente spaventose, che possiamo immaginare solo come il risultato di una trama dispotica di un film hollywoodiano. Nell’estate del 1946, attraverso l’operazione “Crossroads”, esperimenti nucleari condotti dal Governo degli Stati Uniti, a Bikini, atollo appartenente alla Repubblica delle isole Marshall, vengono detonante quelle che sarebbero state la quarta e la quinta esplosione nucleare della storia;
Sessantasei sono i test con armi nucleari compiuti dal 1946 al 1958 dagli USA, di cui sono tragicamente presumibili le conseguenze: Inizialmente, per preparare gli atolli agli esperimenti nucleari, vengono evacuati forzatamente i loro abitanti in isole, più piccole e differenti, in cui non avrebbero mai potuto sviluppare la loro millenaria pesca tradizionale.
Negli anni Cinquanta le bombe nucleari all’idrogeno arrivano a cancellare enormi porzioni di isole, completamente spazzate via nel caso di atolli di ancor più piccoli, oltre che ad aver reso il poco rimasto interamente inutilizzabile per alcun tipo di sussistenza, con livelli di radioattività superiori a quelli di Chernobyl, che rendono tutt’oggi l’isola di Bikini del tutto inabitabile.
Preservare le isole
In forza di quanto sopracitato, la parola chiave della nostra epoca non è più “scoprire” ma “preservare”; attualmente, i pochi territori rimasti integri da tali comportamenti, conservano una preziosissima eredità, che le “persone del presente” devono necessariamente portare avanti, con una sorta di sguardo da lontano, un distaccato disincanto che permette altresì di godere delle bellezza naturali, ma anche di tutelarle in tutta la loro meraviglia e maestosità.
Esempio lampante di questa nuova dimensione è Pelagosa, territorio sconosciuto alla quasi totalità degli Italiani, seppur sia più vicino alle coste Pugliesi che a quelle Croate, piccolo arcipelago nel Mare Adriatico, situato in prossimità della costa del Gargano, utilizzato sin dalla preistoria come tramite tra le due coste.
Nel 1915, a seguito dello scoppio della Prima guerra mondiale, le isole vengono inizialmente occupate dal Regno d’Italia, che ne decreta l’ufficiale legittimazione nel 1920; Nel 1947, dopo la seconda guerra mondiale, la completa “sovranità” di Pelagosa viene affidata alla Jugoslavia, fino a quando, nel 1991, in conseguenza della dissoluzione di quest’ultima, l’arcipelago entra nella Repubblica Indipendente di Croazia.
Ad oggi in queste isole non vive nessuno, fatta eccezione per i custodi dell’unico faro, che costituisce uno dei pochissimi edifici; grazie alla loro relativa lontananza, le ridotte dimensioni, l’arcipelago rappresenta uno degli ultimi angoli incontaminati dell’Adriatico, ma le minacce incombono dietro l’angolo: Cosa accadrà quando si “riscoprirà” questo arcipelago?
La speculazione edilizia e il turismo di massa sono le conseguenze più ovvie a tal proposito, oltre al conflitto di interessi che si innesca per quanto riguardano le opportunità economiche, che spesso non coincidono con le direttive tra diversi stati: Il governo Croato, unico stato che può esercitare un controllo diretto su Pelagosa, mai ha nascosto le proprie ambizioni, portando avanti operazioni di ricerca ed estrazione di gas e petrolio, che indissolubilmente non coincidono con la volontà di numerosi gruppi di attivismo lungo le località costiere Italiane, che potrebbero trovarsi davanti ai propri occhi numerose piattaforme petrolifere, senza poter fare nulla a riguardo.
Per concludere, ogni scelta su Pelagosa sembra quasi irreversibile, ma solo all’apparenza: Per una volta, non “fare nulla a riguardo” , concetto simbolo dell’omertà che sta alla base di tante disgrazie del mondo, potrebbe rivelarsi la scelta corretta: limitarsi ad osservare un paesaggio ,senza necessariamente depredarlo, visitarlo nel rispetto dell’ambiente senza costruire vistosi villaggi turistici, riconoscere come abitanti dell’arcipelago non solo gli animali che lo abitano, ma anche il verde degli alberi e l’asprezza degli scogli, portatori di una memoria collettiva di cui mai dovremo privarci.
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