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di Cecilia Isidori.
È giunta al termine la settimana in cui gli occhi di tutta Italia sono puntati sulla “Città dei fiori”. È sceso il sipario sul teatro dell’Ariston ma, come ogni anno, i riflettori ora virano sulle polemiche, il fulcro del “dopo Festival”.
C’è chi si rammarica per una conduzione laconica e troppo asciutta (ne parliamo anche in questo podcast con Alice Valeria Oliveri), a tratti algida, chi per un Festival stile “Restaurazione”, chi per le co-conduttrici presenti poco in veste di professioniste, piuttosto sul palco per interpretare malate combattenti o vallette bionde e frivole.
La polemica, però, si infiamma ed esplode, soprattutto sui social, in particolare per la classifica: a “Domenica In” diverse artiste in gara si esprimono con amarezza sulle cinque prime posizioni tutte maschili.
Centinaia di ricondivisioni per le parole dell’artista Elodie che sbotta, nel confronto con la Sala Stampa, a sostegno della collega in gara Giorgia e aggiunge “Sembra sempre che le donne debbano fare le capriole, i salti mortali. Non è una questione di vittimismo, sono dati oggettivi, siamo sempre in minoranza e non mi sembra che siamo inferiori artisticamente”.
La segue, poi, la stessa Giorgia e afferma: “C’è una mentalità che parte inconscia quando si deve trattare un genere o l’altro, noi abbiamo in automatico un trattamento diverso.” poi prosegue “Finché dobbiamo sottolinearlo il problema c’è.”
Questi gli spezzoni degli interventi delle artiste più condivisi, commentati e che hanno generato discussioni e scontri tra gli utenti, divisi tra chi concorda e sostiene le artiste e chi invece fa della classifica una questione di semplice bravura e non di genere.
Proviamo a ragionare su quello che sembra essere un rompicapo senza risposta con ordine.
Che al Festival di Sanremo - come in tantissimi altri contesti - ci sia un problema di sovra-rappresentazione della componente maschile è indubbio: di 30 artisti originariamente previsti, poi scesi a 29, solo 12 sono donne.
In generale, consideriamo che dal 1961 al 2022 hanno partecipato al Festival 1938 uomini e 755 donne, solo sei donne hanno avuto il ruolo di conduttrici principali e nessuna donna da sola è mai stata direttrice artistica (nel 1997 Carla Vistarini fu co-direttrice accanto a Pino Donaggio e Giorgio Moroder).
Grande spazio è stato invece lasciato alle donne, a partire dalla quinta edizione del Festival del 1955, nel ruolo di “vallette” prima e “figure femminili” poi, ossia affiancamenti d’appoggio accanto al conduttore.
In contesti di questo tipo, le classifiche non fanno altro che confermare il sistema di sovra-esposizione maschile.
È evidente anche che quest’anno nessuna canzone si distinguesse particolarmente dalle altre: né per contenuti e temi affrontanti - complice di ciò anche il fatto che venti di trenta canzoni sono state scritte dagli stessi undici autori-, né per i messaggi veicolati o per le esibizioni.
Nessun artista – salvo Lucio Corsi, penalizzato però dall’essere difficilmente confinabile negli standard imposti da un festival conservatore - portava con sé l’elemento “wow” necessario per mettere tutti d’accordo.
In questo “piattume” generale, gli artisti favoriti partivano praticamente dalla stessa posizione quanto alla possibilità di aggiudicarsi un posto nella “top 5”.
È un caso che siano riusciti a farlo solo uomini? Non proprio.
È stata anche una questione di scelte, prese nel retroscena del Festival. Scelte che hanno favorito gli uomini.
È significativo, in questo senso, il fatto che Olly e Francesca Michielin siano stati seguiti dalla stessa società di management – “La Tarma”- fondata da Marta Donà.
Stesso management ma trattamenti completamente differenti.
Il gruppo in questione è composto unicamente da donne ed è guidato da Marta Donà che ha spesso sottolineato, in diverse interviste, di essere fiera dell’unicum che, proprio per questo motivo, la sua società rappresenta nel settore.
Eppure, hanno scelto di investire solo ed esclusivamente su un uomo, attraverso una maggiore sponsorizzazione del brano, in radio e sui social, e del personaggio che ha avuto più testate giornalistiche, più interviste, più microfoni per farsi conoscere ed ampliare il suo pubblico, rispetto alla collega.
Si è scelto di investire su un modello maschile, più proficuo, a prescindere dall’effettiva qualità del lavoro, del personaggio e a parità di prodotto presentato (entrambi si esibivano con una canzone inerente alla fine di una relazione).
Olly, sul palco di Sanremo, ha indossato un abito perfettamente cucito a misura di stereotipo, ha interpretato la parte di un uomo eterosessuale che si strugge, si arrabbia, urla le parole di una canzone scritta perché incapace di darsi pace per aver perso la donna amata.
L’incarnazione dello stereotipo, nei temi e nell’aspetto estetico, permette al cantante di creare un forte legame con il pubblico, una sorta di dipendenza devota, che si rafforza nelle generazioni giovani, già sue ammiratrici dagli esordi grazie a TikTok, ma che raggiunge anche le generazioni più adulte, grazie alla potenza mediatica dello schermo sanremese.
Idolatria che si consolida proprio perché l’artista incarna uno stereotipo socialmente accettato e “people-pleasing”.
Dovremmo domandarci perché questo trattamento non viene riservato a chi presenta sulla scena modelli differenti - donne o uomini fragili e decostruiti - ma solo a chi è conforme allo standard.
Analizzando poi la questione della classifica, è sicuramente triste immaginare che una donna debba occupare una determinata posizione solo in quanto sterile e passiva rappresentante del suo genere, senza che ne siano valorizzate le competenze, le abilità e il talento.
Tuttavia, sarebbe sciocco negare che, nella stragrande maggioranza dei contesti – ad eccezione di quelli legati alla cura, ai lavori casalinghi o che hanno a che fare con l’infanzia - si fa meno affidamento sulla professionalità delle donne e si preferiscono in automatico modelli maschili.
Gli elenchi degli artisti in gara e le conseguenti classifiche sono il prodotto di un retaggio culturale, maschilista e patriarcale, che in contesti di parità di prestazione, contenuti e performance, preferisce investire e, quindi, valorizzare la professionalità maschile a discapito di quella femminile.
Basta guardare il numero di donne in posizioni dirigenziali nelle aziende. Secondo i dati raccolti nel 2024 dall’ Osservatorio Donne Executive, solo poco più di 500 dirigenti sui quasi 3000 coinvolti sono donne, per una media pari al 17% nei ruoli di executive e solo il 6% nei ruoli di amministratori delegati. Nel mondo accademico la situazione non è migliore: nel 2022, solo 12 su 99 rettori erano donne.
Potremmo proseguire con numerosi altri esempi ma, in generale, è azzardato dire che tutto ciò sia basato solo ed esclusivamente sulla bravura e sulle competenze.
Il punto della questione è culturale.
Il patriarcato ci ha insegnato che se comanda, dirige, ha successo, trionfa è uomo, a prescindere dal settore.
Se a ricoprire quel ruolo è una donna, è perché – per citare Elodie- “ha fatto i salti mortali” ossia si è faticosamente dimostrata esemplare di eccezionale e straordinario valore. Solo così le viene concesso di stare in quella posizione, di derogare eccezionalmente allo standard di dominanza maschile.
A parità di qualità del lavoro, prestazioni, competenze, si sceglie sempre l’uomo.
Delle donne ci si ricorda solo se raggiungono, con fatica, risultati straordinari.
Il loro essere “solo” brave, come i colleghi uomini, non è mai abbastanza.
E finché siamo costrette a sottolinearlo, il problema c’è.
Image Copyright: VOGUE
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