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Riflessione sulla città odierna in Italia

  • Writer: Koinè Journal
    Koinè Journal
  • Mar 31
  • 5 min read

di Ivan Rubino.


Ogni giorno passato in una città Italiana nel duemilaventicinque è l’equivalente di un gioco ripetitivo, maligno e meschino che solo delle menti fervide come quelle di “Squid Game” avrebbero potuto creare: la mattina, nel tepore delle coperte del letto, la prima prova sarà aprire la finestra, invasa dalle chiassose mandrie di macchine, fauna preminente di questi luoghi, che, non curanti, procedono nella loro direzione, sbattendo qua e là sulle buche,  perché no, si concedono qualche fragoroso saluto con il clacson, spronati dal loro arrembante guidatore.


Un altro ospite selvaggio si insinua nelle città, soprattutto nelle periferie, e scuote tutto il quartiere a tutte le ore: il treno, motore della modernità, il fiore all’occhiello Europeo, stride sui binari d’acciaio, echeggia nelle vie e ammonisce la popolazione, che risponde con un profondo soffio nelle notti, una pesante imprecazione nelle giornate di sole.


La macchina nelle metropoli italiane è considerata superiore all’essere umano, un vero e proprio “Machina ex Deus”, occupando sicuramente più spazio di quest’ultimo; si provi ad immaginare una città senza le macchine e parcheggi per capire quanto spazio se ne ricaverebbe;


Inoltre, i mezzi di trasporto sono in grado di modificare i tempi di percorrenza in maniera indissolubile: camminare sottopone ad un constante fermarsi-procedere scandito dal semaforo, un obbligo fondamentale per la circolazione della macchine, ma che sottopone il pedone a incessanti attese difronte a questi gruppi di auto che sbuffano polveri sottili e gas di scarico; qui però non si è nella savana, non si è nel deserto del Gobi, non ci sono minuscoli frammenti minerari che colorano di giallo l’aria nei caldi pomeriggi , ma ci si trova a Milano, Torino, Genova e tante altre, macchiate dal particolato, una particella solida  che può penetrare profondamente nei polmoni, causando problemi respiratori e cardiovascolari.


L’aria nelle metropoli puzza, è squallida, il più delle volte non si riesce nemmeno a camminare vicino la strada: ci si può chiedere come facciano gli anziani seduti nei pochissimi angoli ancora rimasti, in procinto di attuare quei medesimi rituali che vedono ancora limpidamente nelle campagne, negli appartati borghi su un crine di una montagna, come giocare a carte oppure sedere su una sedia a discutere delle nuove persiane del vicino, a sopportare un tale sdegno verso la loro riverenza canuta; la verità è che ormai le componenti chimiche che respirano e assumo sono nascoste nel sangue, nei polmoni, dentro le arterie e, in certi casi come nella plastica, anche dentro al cervello.


È molto dura da digerire, ma fin dalla tenera età l’essere umano ha camminato su tappeti di cemento, come bambini mai cresciuti e i loro tappetini per gattonare; tuttavia, quando si cade, l’asfalto tocca e frantuma le ossa: duro, apatico, non permette a nessun essere biologico di accedervi, di insinuarsi nel suo mondo.


L’essere umano e il suolo nelle città sono due mondi che non si incontrano, non indietreggiano, possono solo andare a sbattere;


Questa apparente piccola contraddizione che si cela nel rapporto tra uomo e strade asfaltate resterebbe tale, se non si considerasse un altro elemento fondamentale per l’uomo e per il mondo, l’acqua; la superfice impermeabile e liscia detesta l’acqua, ha sigillato il suolo e il suo lamento incessabile, ed ad un primo ruggito, quando il cielo lacrima ininterrottamente, la città si arrende a quello che è un defluire vertiginoso e velocissimo, osserva attonita i tombini collassare, rigurgitare tutti gli scarti sepolti, che avidi tornano a galla a chiedere anche loro un posto in questo mondo; gli argini dei fiumi, troppo deboli per resistere ad un tale impeto, non reggono, lasciano libero arbitrio allo scorrere del flusso, che blocca ponti, strade e case: una strage di innocenti, vulnerabili ed inconsapevoli.


Sul far della sera, quando si guarda sopra la nostra testa, ignari , si vorrebbe cercare un conforto, un bagliore che indichi la strada, la luna con cui discutere, tergiversare il sonno, rispondere a quei dubbi esistenziali che non lasciano tregua, ma sarebbe impossibile: i lampioni non lo permettono, le luci accese tutta la notte dei negozi in centro neanche; così, senza che qualcuno potesse accorgersene, i tessuti urbani hanno rapito le stelle, le hanno fatto proprie e privano la popolazione di riconoscerle, di addentrarsi in quel cosmo che circonda ogni nostra superfice.

 

Ora quel cielo non riveste più un significato, resta solo un viola terso, inespressivo, scandisce le ore della notte in maniera regolare, non si ha più la gioia di vedere in quell’esatto istante una stella cadente, esprimere un desiderio, come un lascito quasi divino che risalta il nostro legame con lo spazio.


Si è vissuto a lungo nell'illusione di un'eterna estate, negando l'inverno che si avvicinava: Gli Italiani hanno chiuso gli occhi davanti alle prime foglie ingiallite, preferendo il tepore effimero del presente al freddo pungente della verità che si palesano nelle nostre città, cattedrali di cemento e acciaio,  baluardi contro la natura, dimenticando che anche le montagne più alte tremano sotto il peso dei cambiamenti.


Si  vorrebbe tanto combattere per un futuro migliore, radioso, per il presente e per le generazioni a venire, fermare che i nostri corpi cadano difronte all’ingiustizia climatica, quanto fingere che tutto vada bene, lasciarsi scivolare addosso i dilemmi etici e morali di cittadino, come gocce di pioggia su un ombrello, rinchiudere tutte le paure in uno scrigno e riporlo in un cassetto sconosciuto, ed andare avanti;


Ammesso che si possano anche  supportare tutte e due le tesi sopracitate, se quindi è lecito sia che si cada vittima, disteso a terra colpito da una forza armata, per aver protestato in nome dei propri polmoni , anneriti dal fumo della fonderia vicino al mio paese, sia che dalla tv sia stia guardando un documentario sullo sprofondamento della capitale dell’Indonesia, Giacarta, in un appartamento Gotico-Veneziano vicino Piazza San Marco, mentre dalla  finestra sta aleggiando lentamente verso la medesima situazione, l’ essere umano viene mosso veramente solo da due cose: la ricerca della verità e sfatare le menzogne.

 

E’ tanto evidente come l’ingiustizia climatica non sia più un’ombra lunga e silenziosa, che per anni ha coinvolto solo le terre più fragili, che, a loro malgrado , hanno dovuto far fronte alla situazione con infrastrutture tutt’altro che adeguate, quanto la teoria dello sviluppo e del progresso abbia appannato gli scopi del genere umano, rendendolo un’avida e subdola macchina di produzione e di annientamento.


Ora, nelle città nei duemilaventicinque, si hanno tutte le carte in regola per sfatare queste bugie, si è trasmesso il potere di riacquistare il nostro diritto di essere umani, si ha la consapevolezza di poter maturare una prospettiva comune.


Vulnerabilità e resilienza in questo caso forniscono una grande opportunità: capire la percezione dei cambiamenti climatici per affrontarli, conoscere i pericoli che si insinuano ed avere la forza di cambiare le cose come stanno: sia il “proletario” che vede le sue terre annientate dalla siccità, sia “Borghese” a cui è crollata la villa al mare, vogliono cambiare le cose e si unirebbero per farlo.


Ed ancora, amici , non resta altro che camminare lungo una qualche strada alberata, respirare l’aria depurata operosamente dalla vegetazione che la circonda, sentire i suoi profumi, riconoscere la pianta che lo emana, toccare con i piedi la terra umida o la sabbia rovente, per risollevare in maniera innata quell’istinto primordiale di conservazione di tale ricchezza, una brama che va oltre la gloria della carriera e l’oro dei gioielli, ma che affonda le radici nell’umanità in una via ancora più primitiva, in cui atomi e molecole danzano insieme, pronte per affrontare un nuovo giorno.






Image Copyright: I Nottambuli di Edward Hopper 1942


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