di Lorenzo Ruffi.
Antonio Guterres, alto ufficiale ONU, si rivolgeva cosi, il 30 Marzo 2021, ai delegati di UE e ONU riuniti a Bruxelles per discutere del problema siriano, a dieci anni esatti dall’inizio della guerra.
Lo scoppio della crisi
Sono passati ormai più di dieci anni da quando, nel marzo 2011, una folla di manifestanti si era radunata pacificamente a Dar’a per protestare contro le torture inflitte ad alcuni adolescenti, rei di aver inscritto graffiti contro il governo, da parte della polizia del regime.
Il rais Bashar Al-Assad guida col pugno di ferro il paese dall’estate del 2000, anno in cui è succeduto a suo padre, l’ex presidente Hafiz, fondatore de-facto della Siria moderna. Il governo di Damasco è quindi retto, fin dagli anni settanta del novecento, dalla dinastia Assad, che basa il proprio potere su due elementi cardine, senza conoscere i quali non potremmo capire a fondo le vicende siriane degli ultimi cinquant’anni: l’ideologia ba’th e la fede alauita.
Il ba’thismo, (dall’arabo “al-bath”, rinascita), nasce nel secondo dopoguerra proprio in Siria con lo scopo di creare una società araba unita ed indipendente dalle morse coloniali europee, ed in grado di modernizzarsi autonomamente, adottando una pianificazione economica tipica dei paesi socialisti. La struttura politica del partito ba’th è però intrinsecamente ostile alla partitocrazia e al parlamentarismo e si orienta più verso un modello di stato-partito, tipico dei fascismi europei degli anni ’30.
L’altro pilastro del regime è la fede alauita, una corrente minoritaria dello sciismo diffusa prevalentemente in Siria e Libano. Con la presa di potere di Hafiz nel 1970, all’epoca giovane generale dell’aviazione militare, le principali cariche istituzionali e militari dello stato vennero monopolizzate dalla minoranza alauita siriana. Le politiche di favoreggiamento degli Assad nei confronti di questa minoranza e di altre, in particolare i cristiani e i drusi, fomentarono, col passare degli anni, la rabbia e la frustrazione della maggior parte dei siriani aderenti alla fede sunnita.
Tuttavia il regime siriano si era distinto, fin dalla sua fondazione, come uno stato relativamente stabile, in cui vi era un’assoluta stasi politica e in cui i vari gruppi religiosi ed etnici che vi abitavano vivevano in pace e concordia tra loro.
I fattori che portarono alla destabilizzazione interna e allo scoppio delle rivolte antigovernative nel 2011 sono molteplici, ma possono essere ricondotti a due macro questioni: l’instabilità economica del paese e il ruolo catalizzante delle cosiddette “primavere arabe”.
Alla rigida pianificazione economica di stampo socialista si andò a sostituire, fra la fine degli anni ’90 e gli inizi del nuovo millennio, una parziale liberalizzazione del mercato e un progressivo inserimento della Siria nella competizione economica globale. Se da un lato ciò rappresentò una momentanea boccata d’aria per i bilanci dello stato, dall’altro si creò una perdita di posti di lavoro nei settori industriali a causa della concorrenza di merci internazionali, causando squilibrio nella bilancia commerciale. La ritirata dello stato dalla sfera economica e l’inserimento nel mercato competitivo capitalista acuirono enormemente il divario fra i benestanti commercianti dei centri urbani e la popolazione rurale. Non sorprende, dunque, che la maggior parte dei rivoltosi provenisse inizialmente da aree rurali o da quartieri degradati delle periferie di Damasco e Aleppo.
Alla base delle rivolte c’era tuttavia anche un forte desiderio di ottenere nuove libertà politiche e di aprire il paese ad una parziale democratizzazione. Il 2011, in questo senso, è un anno di svolta nel Medio Oriente; una serie di proteste antigovernative e democratiche destituirono leader di lunga data dall’Egitto allo Yemen, dalla Libia alla Tunisia. Ben presto il vento di cambiamento delle primavere arabe soffiò anche sul regime di Assad, con esiti che tuttavia si riveleranno assai diversi dagli altri paesi e che faranno precipitare la Siria nel baratro.
Dalla crisi locale all’irruzione del jihadismo
Nessuno avrebbe mai immaginato che una protesta antigovernativa si sarebbe estesa dapprima a guerra civile, ed in seguito a teatro di uno dei conflitti più cruenti della storia recente, in cui quasi tutte le potenze mondiali sono scese in campo a supporto del loro rispettivo alleato. Per capire come sia potuto succedere occorre provare a fare un minimo di chiarezza sul complicato scacchiere delle parti in gioco.
Fin da subito l’esercito regolare fedele al regime si dovette scontrare con gli insorti, riuniti in varie fazioni nell’ ESL (esercito siriano libero). Esso era composto da militari disertori dell’esercito regolare, volontari dell’opposizione democratica ed infine da alcuni raggruppamenti di combattenti islamisti sunniti, ostili fermamente alla minoranza alauita al potere. Gli insorti furono da subito supportati da democrazie occidentali, quali gli USA, la Francia e la Gran Bretagna, ma anche da altri paesi del Medio Oriente, come l’Arabia Saudita, la Turchia e il Qatar, che supportarono in particolare le milizie islamiste. Il sostegno occidentale, fornito anche alle sacche più radicali dei ribelli dell’ESL, si spiega attraverso i rapporti di amicizia, diplomatica ed economica, che legano Washington a Riyad e Parigi a Doha.
Alcuni analisti internazionali però hanno accusato i governi americano e francese di “miopia politica”; lo studioso francese di geopolitica Frèdèric Pichon, nel suo saggio intitolato “Siria: perché l’Occidente sbaglia” (Pichon 2014: 69-72), accusa la Casa Bianca e l’Eliseo di aver anteposto i legami economici con le due monarchie del Golfo al reale interesse per la natura della resistenza siriana, mentre sauditi e qatarioti finanziavano movimenti di matrice islamista e anti-democratica.
Nel corso della guerra civile, infatti, emersero progressivamente formazioni militari di stampo salafita che entrarono in conflitto sia con le forze secolari dell’ESL sia con l’esercito regolare di Assad.
Dalla miriade di formazioni estremiste, s’impose, nel 2014, Daesh, universalmente noto con il nome di “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIS), una milizia jihadista che in breve tempo riuscì a conquistare enormi territori tra Iraq e Siria, sottomettendo città chiave come Mosul e Raqqa, che divenne la capitale del sedicente Califfato.
Le vittorie lampo dell’ISIS e la capacità dei jihadisti di Al-Baghdadi di creare un network di combattenti provenienti da ogni angolo del mondo, anche dall’Europa, furono il motivo dell’intervento delle principali potenze del pianeta nello scacchiere siriano per contrastare il Califfato.
Epicentro di una crisi globale
Alla fine del 2014, sia le forze democratiche dell’ESL che l’esercito fedele ad Assad, versavano in grosse difficoltà nel contenere l’avanzata dilagante dei miliziani dello Stato Islamico che controllavano buona parte del territorio settentrionale del paese. La posizione strategica del paese, legami di natura politica ed economica di vecchia data e la volontà d’impedire che la Siria divenisse una sorta di santuario del jihad globale furono le ragioni principali che spinsero diversi attori internazionali a intervenire per liberare i territori sotto il controllo del Califfato.
Alla coalizione internazionale di paesi occidentali a guida USA, che sosteneva le forze più democratiche e progressiste dell’opposizione siriana insieme ai combattenti curdi del Rojava, si affiancarono, senza farne parte, altri due paesi, la Russia di Putin e la Repubblica Islamica dell’Iran, che combattevano invece per mantenere in vita il regime di Assad. Va sottolineato come i paesi occidentali abbiano preferito non “sporcarsi troppo le mani” in Siria, memori di altre guerre infruttuose in Medio Oriente, su tutte quella in Iraq, che avevano scontentato l’opinione pubblica, ma che soprattutto non avevano restituito al paese occupato quella stabilità politica necessaria a Washington, Londra e Parigi per imporre una loro sfera d’influenza economica e politica sulla regione. Al contrario, Iraniani e Russi sapevano che la loro influenza regionale passava dalle sorti del regime ba’thista: ecco perché scesero in campo con ogni mezzo per ribaltare le sorti della guerra.
La Siria era il principale partner mediorientale dell’Unione Sovietica, dalla quale riceveva enormi aiuti alimentari e militari. Anche dopo il crollo dell’URSS del 1991, il legame che univa Mosca a Damasco non venne minimamente scalfito, tanto che l’ex base navale sovietica di Tartus (la principale base navale russa nel Mediterraneo) rimase fermamente nelle mani del Cremlino, in cambio di nuovi aiuti in armamenti al governo di Assad. Non sorprende dunque il tempestivo intervento di Putin in Siria per difendere il suo vecchio amico dalla minaccia jihadista e dall’imminente sgretolamento del regime.
Spiegare invece l’entrata in scena dell’Iran solo sulla base della volontà di difendere il regime siriano perché retto da una piccola cerchia di fedeli sciiti, gli alauiti appunto, è riduttivo. L’affinità religiosa è stata usata come copertura dal regime di Khamenei per immischiarsi a pieno titolo nella lotta per l’influenza politica nella regione, in contrasto con le potenze sunnite, in primis Turchia e Arabia Saudita, che sostenevano infatti il fronte opposto dello schieramento siriano.
Con questo imponente dispiegamento di forze da entrambe le parti, lo Stato Islamico presto dovette capitolare, ma la diversità tra le forze politiche e militari che l’avevano combattuto rese impossibile, negli anni successivi, arrivare ad una soluzione pacifica del conflitto.
Sviluppi recenti e conclusioni
Dopo la sconfitta dell’ISIS nel 2017, la Siria rimase divisa in zone d’influenza in cui fazioni militari o attori statali e non governavano autonomamente ampie porzioni di territorio, situazione che ancora oggi persiste.
I Curdi controllano autonomamente la parte settentrionale del paese, nota come Rojava, scontrandosi ripetutamente col governo turco di Erdogan, che rivendica imperialisticamente questi territori di confine.
Grazie all’aiuto della Russia e dell’Iran, coadiuvato dai suoi alleati regionali come Hezbollah, il regime di Assad, prossimo al collasso nel 2015, oggi controlla circa due terzi del territorio siriano. In realtà, il governo ha influenza solo nelle grandi città, mentre le zone rurali sono controllate perlopiù da milizie autonome sciite affiliate a Teheran. Infine, l’ESL e il suo principale alleato, Ankara, controllano solo piccole porzioni di territorio a ridosso del confine turco-siriano. I jihadisti invece, pur essendo stati sconfitti e pur avendo perso tutti i territori sotto il loro controllo, occupano ancora le aree desertiche lungo il confine iracheno, da cui lanciano sporadiche offensive.
Ad oggi è difficile ipotizzare una qualche forma di riconciliazione politica fra le parti. I grandi protagonisti della scena siriana rimangono sicuramente la Turchia e l’Iran, che stanno silenziosamente combattendo una guerra per procura per ottenere l’egemonia regionale. In questa partita, che assomiglia molto ad un gioco a somma zero, la Siria rappresenta sicuramente una delle pedine più importanti. Il Cremlino, dopo aver ottenuto ciò per cui era entrato in guerra, ovvero la sopravvivenza del regime di Assad, rimane un osservatore speciale esterno, pronto a impegnarsi nuovamente se le cose dovessero mettersi male per il suo alleato. Chi rimane ad oggi completamente tagliato fuori è l’Occidente. La timida campagna militare per sconfiggere Daesh appare più come una ritorsione per vendicare gli attacchi jihadisti che hanno insanguinato l’Europa che come un deciso atto volto a liberare i siriani che vivevano sotto il Califfato nero. Per Yassin Al- Haj Saleh, autore di “Siria, la rivoluzione impossibile” (Saleh 2021: 220-224), crisi come quella siriana esigono un nuovo principio di responsabilità globale. Non possiamo fare finta di nulla, non possiamo voltare le spalle ad una simile carneficina di esseri umani, bisogna intervenire con decisione per porre fine a simili catastrofi. Si è forse arrivati a pensare che Assad è il male minore, ed in questo è stata complice la classe politica occidentale. La destra lo ha dipinto come l’unico argine all’integralismo islamico, mentre a sinistra lo si è considerato un campione dell’antimperialismo, ma appare evidente che la responsabilità della tragedia umana che si sta consumando ricade anche sulle spalle del rais.
Nel mondo attuale, un mondo “sirianizzato” come lo definisce Saleh, caratterizzato da tensioni, odio e intolleranza, voltare le spalle a chi sta morendo per una guerra, o a chi è in fuga dalla propria terra sarebbe uno sbaglio imperdonabile, ed è proprio quando ci giriamo dall’altra parte, quando nella nostra società dominano disinteresse e menefreghismo, che tragedie come quella in corso in Siria possono verificarsi altrove, anche dietro casa nostra.
La situazione siriana rischia di rimanere congelata finchè Assad non deciderà di dialogare con l’opposizione, cercando di spalancare le porte ad una soluzione pacifica del conflitto e ad una transizione democratica del potere. Questo non avverrà entro breve, e sarà necessaria la cooperazione di tutti i protagonisti della guerra per avviare una mediazione fra le parti. Mentre i giganti dello scacchiere politico globale continuano a spartirsi la Siria, il suo popolo muore e soffre, avvolto da una spirale di violenza di cui non si vede ancora una fine.
Bibliografia di riferimento
. Westad O. A. “La Guerra fredda globale “, Il Saggiatore, Milano, 2015
. Pichon F. “Syrie: Pourquoi l’Occident s’est trompè?”, Editions du Rocher, Monaco, 2014
. Al-Haj Saleh Y. “Siria, la rivoluzione impossibile. La rivoluzione, la guerra civile e la guerra pubblica in Siria”, Mr editori, Caserta, 2021
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