di Lorenzo Ruffi.
Alle prime ore del mattino di domenica otto dicembre risuona dagli altoparlanti delle moschee di Damasco il messaggio che milioni di siriani stavano aspettando. “Damasco è libera, la Siria intera è ora libera dalla tirannia di Bashar al-Assad”. La caduta della capitale siriana è stato l’ultimo atto della travolgente offensiva condotta dai gruppi ribelli che, in soli undici giorni, hanno conquistato i principali centri abitati del paese, entrando a Damasco senza colpo ferire.
Dopo oltre cinquant’anni di dominio assoluto della famiglia Assad, la Siria è ora pronta per voltare pagina; tuttavia, molti dubbi ancora avvolgono il futuro del paese, a partire da chi effettivamente assumerà le redini del potere, e in quale maniera questo verrà esercitato. La frammentazione del paese dovuta alla guerra civile e la presenza di molteplici attori internazionali con agende divergenti rischiano, inoltre, di compromettere il cammino verso democrazia, pace e stabilità.
House of Assad: la fine di una dinastia
Lo sgretolamento in poco più di una settimana di uno dei regimi più longevi nella storia del Medio Oriente contemporaneo rappresenta indubbiamente un punto di svolta storico nella regione. Il regno della famiglia Assad ebbe inizio nel dicembre nel 1970, quando Hafez al-Assad, all’epoca giovane comandante dell’Aeronautica siriana, organizzò un colpo di stato insieme ad altri ufficiali dell’esercito per rovesciare il governo del generale Salah Jadid, appartenente alla fazione rivale del partito Baath. Assad, appartenente alla minoranza alauita originaria della regione costiera di Latakia, trasformò la Siria in un regime a partito unico, promuovendo i suoi correligionari ai dicasteri più importanti del governo, come la Difesa e l’Economia.
Dopo trent’anni al governo, Hafez lasciò il potere, poco prima di morire nel giugno del 2000, al secondogenito Bashar, all’epoca studente di oftalmologia a Londra e poco interessato alla politica. Appena salito al potere, Bashar venne considerato un riformatore, dal momento che sembrò essere propenso a introdurre accorgimenti democratici e ad aprire l’economia al libero mercato. Tuttavia, tale speranza ebbe vita breve. Le tanto attese riforme democratiche non vennero mai realmente implementate, mentre l’apertura economica siriana si tradusse in un rafforzamento dell’ordine neo-patrimoniale già brevettato dal padre, nel quale i membri della famiglia del presidente possedevano consistenti quote percentuali di aziende e imprese a guida statale. La fine del socialismo decretata da Bashar non portò al tanto atteso miglioramento delle condizioni economiche della popolazione, ma all’ulteriore arricchimento del cerchio magico della famiglia Assad.
Sull’onda del successo delle Primavere Arabe, decine di migliaia di siriani scesero in strada per chiedere ciò che Bashar aveva promesso ma mai realizzato, ovvero riforme economiche e libere elezioni. La risposta del regime fu una brutale campagna di arresti e massacri contro la popolazione civile che diede inizio alla guerra civile. Solo l’intervento militare iraniano e russo salvò il governo di Assad dal collasso nell’inverno del 2015, quando i ribelli si trovavano alle porte di Damasco. Da quel momento in poi, il regime sembrava aver riguadagnato terreno e consensi da una parte della popolazione sfinita da uno dei conflitti più violenti del XXI secolo. Nel 2020, un accordo di cessate il fuoco era stato ufficialmente siglato fra Iran, Russia e Turchia ad Astana per evitare una recrudescenza della guerra in Siria, che da quel momento rimase congelata, almeno fino allo scorso ventisette novembre, quando le formazioni ribelli guidate dal movimento islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e dal filoturco Esercito Nazionale Siriano (SNA), ripresero le ostilità, spazzando via le forze del regime senza in poco più di una settimana.
Dal Jihad alla Politica: la metamorfosi di Hayat Tahrir al-Sham
Dopo la fuga di Assad e della sua famiglia a Mosca, il mondo si chiede chi prenderà il suo posto alla guida della Siria. Il gruppo sicuramente più potente all’interno dell’opposizione siriana è Hayat Tahrir al-Sham, la formazione islamista nata nel 2017 e diventata forza di governo a Idlib, l’unica provincia siriana che non era stata riconquistata dal regime dopo il 2015. La parabola politica di HTS ha attirato diverse critiche al gruppo, che è stato accusato di non aver mai pienamente reciso i propri legami con organizzazioni terroristiche come al-Qaeda o lo Stato Islamico. Il leader di HTS, Abu Mohammad al-Jolani, aveva infatti fondato Jabhat al-Nusra, l’ala siriana di al-Qaeda, nel 2011 per promuovere la lotta armata di stampo jihadista e salafita contro il regime.
A causa di discrepanze a livello tattico e ideologico, Jolani entrò in rotta di collisione con la leadership qaedista, arrivando a scontrarsi direttamente con essa. La svolta “moderata” di Jolani coincide con la stessa fondazione di HTS: sciolta al-Nusra, egli proclamò la fusione del suo gruppo con altre realtà islamiste minori per formare Hayat Tahrir al-Sham, con l’obiettivo di unire le forze per combattere il regime di Assad. A Idlib, HTS ha messo in piedi un efficace sistema di governance, fornendo servizi di base alla popolazione civile come assistenza sanitaria e alimentare, oltre a riorganizzare i programmi educativi locali ad ogni livello. Il gruppo, inoltre, pare aver messo da parte la logica settaria che invece aveva caratterizzato al-Nusra, rispettando e proteggendo le minoranze religiose nella provincia sotto il loro controllo. HTS ha tuttavia dimostrato di governare in maniera autoritaria, e screzi con altre formazioni politiche non sono mancati, in particolare nei confronti di quelle sospettate di rimanere leali ad al-Qaeda.
Durante la recente offensiva che ha rapidamente catturato le principali città siriane, il leader di HTS ha rilasciato diversi comunicati che sottolineavano l’importanza di rispettare le minoranze, di non punire i nemici catturati e, soprattutto, di proteggere la popolazione civile. Nell’ultima intervista effettuata dalla BBC, Jolani, che ha utilizzato questa volta il suo vero nome, Ahmad al-Sharaa, ha dichiarato come l’offensiva in atto fosse solo l’ultimo stadio della rivoluzione iniziata nel 2011, e che, una volta caduto il regime, una nuova fase di dialogo fra i vari gruppi etnici e religiosi della Siria si sarebbe aperta per dare al paese un futuro di pace e dignità.
La svolta di HTS, che è passata da operare come gruppo jihadista a uno di liberazione nazionale, ricalca quella di molti movimenti islamisti che hanno abbandonato la dimensione transnazionale per abbracciarne una locale, accreditandosi maggiormente presso ampi strati dell’opinione pubblica. Pur restando la forza principale al momento in Siria, HTS sarà costretta a dialogare con altre formazioni per garantire un’efficace transizione di potere.
Molto probabilmente il gruppo esprimerà il prossimo primo ministro, che Jolani pare aver individuato nella persona di Muhammad Bashir, ma difficilmente riuscirà a replicare su scala nazionale il modello politico stabilito a Idlib in questi anni. Infine, HTS dovrà necessariamente dimostrare al mondo di essere cambiato, dato che la maggior parte dei paesi occidentali lo ancora considera un’organizzazione terroristica: il rebranding intrapreso negli ultimi anni è figlio anche di questo fatto.
Una svolta storica anche per il Medio Oriente?
La fine del regime di Assad non può che avere ripercussioni gigantesche sull’intera regione, in primis perché in pochi si sarebbero aspettati un rovesciamento così repentino delle sorti del conflitto. Pochi mesi fa era infatti iniziato un lento processo di normalizzazione dei rapporti fra Damasco e gli altri partner regionali, culminato nella clamorosa riammissione della Siria alla Lega Araba nel 2023. Molti paesi, specialmente Giordania, Arabia Saudita ed Emirati, pensavano che dialogare con Assad fosse divenuto necessario per avviare un processo di ricostruzione politica nel paese martoriato dalla guerra, oltre che per fermare il contrabbando di captagon (ne abbiamo parlato qui), una potente metamfetamina prodotta proprio in Siria che aveva invaso i paesi limitrofi. La corsa al potere nella Siria post-Assad, tuttavia, rischia di complicare il processo della ricostruzione del paese, dato che le numerose forze in campo sono a loro volta sostenute da differenti attori a livello regionale.
Uno dei nodi principali è infatti quello della coabitazione fra i ribelli del SNA, appoggiati dalla
Turchia, e le SDF (Syrian Democratic Forces) a guida curda. Queste ultime hanno assunto il controllo di circa 1/3 del paese nel nord-est, sottraendo enormi porzioni di territorio al defunto Califfato dell’ISIS fra 2016 e 2017. Da allora, i curdi hanno subito più volte attacchi da parte del governo di Ankara, che ha spesso attaccato le postazioni delle milizie YPG e del PKK nella regione del Rojava. Capire se, e come, i curdi otterranno un posto al sole nella nuova Siria è una questione di primaria importanza. HTS e le SDF si sono fino ad oggi coordinate per non danneggiarsi a vicenda, mentre il SNA, non appena caduto Assad, ha immediatamente lanciato un’offensiva contro la roccaforte curda di Manbij, dimostrando come queste due entità difficilmente possano collaborare in futuro. Altro nodo da sciogliere è quello riguardante le postazioni militari russe nella provincia costiera di Latakia, dove Mosca conserva due basi, quella navale di Tartus e quella aerea di Hmeimim, che sono fondamentali per la sua proiezione nel Mediterraneo.
La caduta del regime di Assad è sicuramente uno smacco per la reputazione della Russia che, impegnata in Ucraina, non ha potuto o voluto intervenire per salvare nuovamente l’alleato siriano. Mosca cercherà comunque di salvaguardare la sua presenza in Siria scendendo a patti con i nuovi padroni di Damasco, nonostante il Cremlino, già in queste ore, stia significativamente riducendo la propria presenza nel paese. Israele e la Turchia, invece, non possono che trarre beneficio dal rovesciamento del dittatore.
Erdogan aveva a lungo provato a trovare un accordo con Assad per porre fine al conflitto e all’esodo siriano in territorio turco, ma senza mai accordarsi sull’effettivo ritiro militare turco dal nord del paese. La tempistica dell’offensiva ribelle potrebbe essere infatti stata dettata non solo dalla debolezza degli sponsor di Assad e delle sue forze armate, ma anche dall’impossibilità di trovare una soluzione diplomatica alle dispute fra Ankara e Damasco.
La Turchia si trova adesso nella posizione privilegiata di poter vantare un rapporto speciale coi nuovi padroni della Siria, grazie ai quali potrebbe ulteriormente estendere la propria influenza nel nord del paese, a discapito dei curdi. Israele, invece, con la caduta di Assad assiste indisturbato al naufragio del cosiddetto “Asse della Resistenza” a guida iraniana, di cui la Siria era un membro fondamentale per essere stato il crocevia attraverso cui passavano tutte le armi che dall’Iran giungevano a Gaza e in Libano. Lo Stato Ebraico ha comunque dato via a una serie di bombardamenti contro depositi di armi a Damasco per privare il nuovo vicino della possibilità di colpirlo.
La caduta di Assad, in conclusione, ha sprigionato sia l’euforia del popolo siriano, che ha pagato un prezzo pesantissimo per liberarsi dalle catene di un regime violento e oppressivo, sia i timori e i dubbi degli stessi siriani e della comunità internazionale per ciò che verrà dopo. Troppe volte, nella storia recente della regione, la caduta di un governo dittatoriale ha significato ulteriori spargimenti di sangue, tensioni settarie e restaurazioni autoritarie. I siriani hanno ora la possibilità di scegliere il proprio futuro, un privilegio ritenuto pure fantasia fino a meno di due settimane fa.
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